LIBRO 89
La semina, la fecondazione e la nascita
Il fuoco
La notte
Il valore pendeva dal soffitto. Così ho parlato dell’acqua. 1) Il nucleo assente che la governa si inflette lentamente, sono cose trasparenti al tatto, che nemmeno il sole riconosce e riporta come il tocco non s’infrange. Rosso è il colore del vento, quando non sferza, quando risale. Quello che è liquido ci ospita evanescente, delicato ad esistere. L’esistenza non può essere interrotta dalla trasparenza che ci avvolge: nulla al di là trasparirebbe, se non fosse. La parola appare nell’ineffabile, il suo complementare contrario, e in questo migra e appare; ma di che cosa parla, di cosa è, come il numero, scatta e lo racchiude? Non si potrebbe sapere, non comunicare, se non ci fosse in mezzo l’esistenza, dove viola è potente, tenebroso, è fatto di miscela di contrasto scuro col luminoso; un denso granulo di nero omogeneo col vento. È una ricetta amara sapersi possenti dall’estraneo, essere quel che siamo, della natura di quel che è trasparente. Così ho parlato della trasparenza, così dell’acqua e dell’aria, che l’avvolge. Io volavo non precipitando, come sa fare chi ha il cuore attento.
Ci sono parole che non sanno, non sanno d’essere e vivono in sordina – Non sanno di comprendere altre cose, sospese e senza nessi. Ha sparso i semi e le ceneri della sapienza, ha rubato la morte a Dio. Vieni, convoglia, staglia: è uno, è solo uno il mondo tutto intero, che non si scuce – Non ho mai visto cosa venire da altro mondo: a questo sempre viene e poi dispare. Non ho mai visto altro che stracci e sogni. Com’era quella guerra priva di persone? Se da un altro mondo viene un sussurro. E dove sei si spacca come tu fossi la fenditura.
Se il verso ed il riverso tu m’intendi, e il lume viene e l’altro l’attendi – Ma la luce scompare, l’altra attendi di molti rivolgimenti, qui rimane, il più lungo e il più corto / come in un bailamme – Di quello che la vita mi riversa, cedo alla morte, cedo, mi abbandono: quello viene con fracasso al carnevale. Negli occhi persi del fatto trasparenti ritornare qui a morire nella casa – Dissemino il sapere, dissemino le braci – Ho amato e fecondato molte donne, ritorno dalla semina a casa – Torno a fermo scoglio – Obliquo torna il re dal vento dipinto – E dai riccioli chiari, sparso di gesso sciacquato come spruzzo di fontana e qui contempla l’essere, l’essere stato; contemplate saranno le cose dopo i semi – Indica come il vecchio istrione, con il dito teso, come dai semi saranno sostanze estranee al suo essere, all’essere dei sogni crescendo ora e dopo, senza bisogno. Legati dagli scopi umani, alla vittoria, la morte eroica che rapisce violenta, riparti e lascia altri, a superare e coprire, risistemare a garbo. Lascia che le truppe si frantumino; lasciami alla scienza a contemplare come può succedere se muove, se la ruota benigna non si infrange – Molecola attesa si comporta – Fa che scintilli la lama bene affilata, al sole. Fai che gli intarsi legali abbiano arte. Il fuoco si è sprigionato da ceneri infette. Fuoco freddo se ricopri colla mano – Hai invaso tutte le ceneri del mondo, se sei cenere, tutte le ceneri sono alte e accese da fuochi, senza incendio – Ma vedo fuochi spargersi ondulati. Ha portato il suo suono fuori dal continente, nella nebbia, dove duro, freddo, dimora. Il suono della tua è sommerso da altre, invadenti. Ho visto salire molle fuoco, che si riaccende; la fiamma tu la sai, come scomponga misura altre misure, come divida e bruci fino in fondo, come velluto scende dal sipario, come sta fra il nascosto e chi l’attende, come si veste e si spoglia a primavera a chi non ama, ma conosce – / Il fuoco si sprigiona da altre coste inaspettato ed è altra cosa sulle cose danzate, dove era fermo chi poteva aspettarlo? Venire da altro mondo e decomporre, fino alla cenere divisa. Allora il fuoco ho visto alleggerire ogni sostanza, il fuoco che bruciava nel mio cuore, e aveva un fulcro, un peso. Un fuoco che giaceva sulle membra anche quando era notte – Il fuoco che rigermina la fiamma, dall’uno all’altro focolaio non si spezza, trasmigra, accende alla vita che brucia. Libera fuoco il legno, con sussulto. Converge e diverge le case, preparate per la pioggia. Ho visto divorare parole, lettera a lettera, annerire la carta bianca; ho visto per una guerra gente perdere la memoria. Non getterò dall’arco la bambagia impestata, infettata di fuoco, l’arco che lungo (è come se in ogni momento la morte mi appartenesse) – E perciò fossi vivo, perciò sapessi. Supponiamo chi barcolli, dubiti o scenda per le scale. E brulicò col vento in aria aperta.
Ancora il tempo del pendolo risulta dal tocco ed il tempo lo correlo e come il fuoco mi è parso dalla cenere emanare, aspetto il tempo che pendoli riverso. Ogni volta che la vita sbalordisce, ogni precisa volta, ho diviso un attimo in frazioni, ho detto al pendolo, rigira, ho detto al fiore, traccia, l’audacia stessa, che alla primavera s’addice. Questa è la sponda del monte feconda. L’acqua veniva posseduta – Come una forza attraente che mi avesse in suo possesso. Dove hai spostato l’acqua velenosa, dove è disapparsa? / E scavalco le ombre: dimmi, dimmi chi ruba dai segni i loro oggetti? Dove dentro la parola il mondo scoppia e non vedo come dentro all’unità che chiude, al numero che racchiude – Da essa sfugge talvolta tutto fuori. E si sparpaglia ed emette un succo agro nero che si dilata: guai se guardiamo dentro quella pasta, dentro il numero, che prendi qualità che non deve avere – Tu, bene ancorato su queste biglie, la scissione dell’atomo non vedi – Non sai come si spande senza misura e ferisce la mente e nulla è nulla, così che spaventosa appare ogni cosa e di noi stessi tieni i piedi saldi. Così il frutto si accese, si decompose e sprigionò energia e fuse il resto da una monade all’altra, scontrarono e produssero fluido che colava, come da un orgasmo cola sperma, la parola si aperse, aveva succo dolce e di certo divino.
La mia mattina è rotta, levigando; conosco, levigando. Spremo il succo vitale che proviene dall’acqua che sale dal dio ferito, come il suo sangue. Chiudi l’interpretazione del mondo in una boccia e conosci una parola per l’etichetta. “Cosmo” dici, rifletti. Anche la nascita, anche la nascita proviene e il cosmo mi rallegra, caos di stelle; come un principio d’oro fuso, e di quello spruzzato, che mi vela e rattrista. Qui cresce il grano di oro, il riso curvo – Crescono attraenti frutti, che radunano ladri e soldati nelle guerre; eccoli i frutti, frutti divini, sperperati; frutteto ricco di ronzii, infestato di insetti che pompa insetti – Questo è il nostro paradiso infestato, agglutinato di desideri, mosso dall’amore. Il vecchio copre l’automobile col telo, perché non invecchi. Scavalca il re le ombre che si frappongono alla via, dimenando la testa come un cavallo strigliato. Disperatamente sciolgo le memorie – Ho sceso via Torino di sbieco – Non ho più l’età per compatirmi, sparse le mie ceneri lontano, cinquecento anni dopo la mia morte – Sono un fantoccio di stracci lì a guardare – Ma l’avrei dietro dopo, ancora un minuto l’avrei detto – Sono in quello caduto e sparso, che marcisce a terra col suo liquame – Vivido di insetti che lo creano, ultimo sparso e primo sparso. Re che tu al centro sei e ti senti, spiegaci come radiale – La nuda pietra dei gradini non si addice al centro dell’universo. Lisciata più dai passi che dai costruttori – Ho sospinto la mia stessa speranza fino a qui, fino al precipizio, dove ci sono spaccature e colonne allineate a reggere l’ultima trave. Viene da Dio il frutto, è la combinazione dell’ingordigia col ronzio che riduce – Quello era il paradiso dei conigli, che alternava la pianta alla vigna: denso, corrotto, degli acini macchiati a verderame – Quanto vide la vigna di soppiatto amanti – Era più / alta di tanto alla portina sceglieva il cielo che voleva al noce grosso – Non esco più, non amo, tolgo i limoni per l’albero ad alleggerire – Non sono che un insetto ad Epidauro; c’era un peso nel cuore di qualcuno; se sapessi dov’è vorrei estrarlo, ma sono sicuro, in oppressione è vissuto. Come sa vivere pesante e vive delle colpe altrui; ancora più si accusa meno; ancora più sospinto, se cerca di capire e ne ha una – Chi è gravida di eterno per il liquido sparso lo vede in sogno, granuloso, come il melograno, gravido di molti figli come i pesci. Ho visto persone colte perdere la memoria e spargerla per i prati, cenere grigia. Ho sentito il dolore che emanava dalla felicità, dal gioco e l’allegria. Ho visto il dolore e la prosecuzione farsi strada nel grembo, non rispettare l’umida vagina. Tutta la maledizione sia su di te, teschio disperso, e non so se discolpare. Aveva il cielo in mano alla caverna umida, suo abitacolo, e noi così discesi da quel fosso, e sempre discendendo alla vagina; molteplice nascita, come appunto dico il melograno, molteplice agonia. Da ciò cosa è pesante e gravido rinasce. Non sappiamo se colpa si ribalta cento volte, se brulica e rinasce. Prendi colpe a piacere, tanto le assumi quasi comunque – O non era piuttosto a beneficio – A sera quando il fuoco, a sera quando la mente diviene evanescente. Feconda quella, con lo scettro. E prolifera e dissipa altri figli, come lumache che da un centro umido o da una caverna, si dirigono, perché l’amore guida. Sceso giù per via Torino, quanti figli per strada, involontariamente generata – Questo ho detto, emanazione del mio regno – / Il paradiso è lì, ma si ritrae nascosto. Era un sofisticato mondo disceso da via Torino alle colonne; dove la cristianità se ne fa vanto, d’essere intero. Intanto, in pochi anni, tante cose son successe che hanno rinseccato la vigna, spento il ronzio sui fiori, i papaveri al grano che sovrasta. Eccoli tutti interi, splendenti, intatti, lucidi, e l’insetto feconda l’infecondo. Alle felci arricciate stridono i freni e la polvere nera. Ha messo le campane, nel silenzio o nel rumore, tolto il campanaro, troppo vecchio – La morte è venuta per tempo, ha sottratto la morte di vedere – Mutila la notte quando ti svegli, ma non è logico vivere ancora – Tu sei troppo pallida: una neve sta allora nascosta dal sole dove si scioglie il filo d’acqua fuori dal ghiaccio perché sei troppo pallida. Inducimi alla tentazione, fai che la carne rosa sia più bella del frutto, fai che lì dal dio venga il sacro divieto; ma tu proliferando avanzi – Perso nel frutto noi sappiamo – Quello era un gioco, i vestiti di sorrisi sospinti assieme. Il frutto dell’oblio era, non della conoscenza – Caro, piccolo uomo, che spavento! Alla condanna il fiele; per versare immagini nel cielo, e rimediare – E ritrova cosa il guscio vuoto. Era un malinteso la scrittura. Lì dimenticherà il bene e il male, il dubbio, la scomparsa. Non dimenticare a quale fine, ma fui perso e si perse il paradiso. Quel frutto mi faceva dimenticare e se ne andò, disperse il paradiso. Il dio vide il destino e non disse nulla. Quella dimenticanza conteneva il destino. Quello che ha perso l’ha perso per l’oblio. Non seguire solo il desiderio, disse, e rendi la coscienza; ma se ne andò per mangiare e dissipare e proliferare, se ne andò dov’era più spessa la guerra. Nel cascame il dio non fece nulla, vide il destino. Hai voluto non vedere e così non vedi? – Stai lì nel mondo senza aver guardato, perché guardi per corrodere e mangiare e dissipare e proliferare. Mi dolgono gli occhi, li prendo e me li copro con le mani (dita) per scaldare. Dice: guardare, ma non c’è più nulla da conoscere se non c’è il giardino e la vigna. Non hai voluto la conoscenza, ma il manto stretto che creava la mappa delle cose: ma vista la mappa orde selvagge hanno fatto tecniche di guerra – Ma se la libidine è esausta, ti trovi esule guardando. Ora puoi avere conoscenza ma la bellezza viene quando è amata, quando il bello viene, ma qui il centro nel placato giardino e su di esso torna di nuovo amore – E scriveva sui fogli e sulle strade, la voce opaca, la voce millenaria.
Sangue divino eri raggrumato ad oriente, oltre le nostre facce. Era di spalle il vento. Nel liquido si accendono queste poche cose – Affiancato lontano cammina, che precede sull’argine – Le stelle stanno alzandosi, molte alla risacca – Non è mai il momento propizio ad alzare con cautela la mano sopra il velo e ammettere il giallo sangue e la linfa del mare che percorre e ha originato di cose maggiori. Ora troppo rosso sangue, che brucia ossigeno, raccoglie e brucia legna, carbone e liquido aromatico che sgorga dalle paludi. Scorre di nuovo il giallo sangue mite e foglie ricche prendevano la vita, qui sulla terra gialla, sulle paglie si è assorbita. Ma il troppo sangue dei soldati / ma gli esseri che lo bruciano e che vivono, coprono la terra con un ammanto di porpora e di vere ombre, ha bruciato la notte il sole che è stato, restituiscono la notte, quello che era del giorno, in bagliori non vogliono la notte cupa e consumano il giorno. Il sole nascosto nel nero protocollo si sprigiona – Appoggia lì lo sguardo sul feroce sole – La bianca linfa dell’universo qui fluisce più moderata e gialla. Quando la pianta verde beve e fa incontrare la luce coll’acqua – Né io né te vogliamo la maledizione degli avi. Non vogliamo essere locuste o tarli, che il percorso col gemito scandisce nella notte. Se ti sembra così banale perdere la memoria, perché non costruisci la vita intera da quello che hai? – Riproduci una pianta se è perduta, perdi il seme lì – La storia, il libro, la memoria, solo i semi che riproducono raccogli, se li hai seminati rivedi la sua espansione e il suo frutto – Immagini senza commento fluttuanti che mostrano il bel viso sorridente – Non queste fanno memoria – Come? Le rigeneri – Dove è il giudizio? Dove sono virtù e benefici? Più semi ho conservato in una teca cristallina, erano le vecchie bendate di nero. E, spogliata, scoprii che loro generano e hanno generato – Un’immagine ha visto la mente, ravviva ed ibrida e produce – Sotto l’immagine i suoi tarli minimali, le sillabe, i suoi suoni, piccoli tarli che scavano – Senza il seme, senza la donna che rinasce coi suoi frutti, senza l’amore, il silenzio dei morti è il più tremendo. Oh! Non dei vivi – Dei morti che non dicono quando, con cosa saremmo; non dove, se mai, prosegue – Proruppe dalle scale, scomposto e senza decenza. Dicono se segue quello che era posto; collimano le cose con le cose, ad una ad una, dopo di loro – Ho sognato le scale giù fino alla cantina o cripta rosso marrone, ma poi dopo le scale era sporcato il pavimento; il giorno successivo sognai le scale al tetto dalle sbarre superabili: così di qui, di là non potei andare: provai in due notti. Ti ho chiesto la coscienza anche se avevi la felicità, e provasti il dolore della colpa, quello che nascondi e rifiuti. Hai colto la colpa e l’hai nascosta, insostenibile – Ancora il poco che vedeva, ma anche vide la conoscenza, bella e fiorente, lucida che scintillava: non solo i fiori erano gravidi di insetti, ma i frutti, ma ancora, ancora, i frutti accartocciati; percorsi di spirali fungosi come pianeti; vide lì il cosmo, la terra – In esso la donna disse guarda, prendi, mangia; o forse io lo presi, prima che dicesse io lo porsi; prima che guardasse la guardai. Era per benvolerla, toccai colle dita, carezzando, mostrai lucida, piena, e abbassai lentamente col suo ramo, la staccai, la porsi; erano i suoi seni turgidi di neve, tazze e conchiglie, e bevve il siero essenziale, quello che non è completo, quello che non è fatto disentangle. Concetti, che si vuole usare con forte intenzione di legare, allacciando al male, e il buono al bene. Concetti politici, sociali – Bugie non servono coi morti. Il luogo dove si raccolgono bugie blocca il pensiero, assedia il destino, lo ragguarda. Il luogo è identico, benché si sia spostato, dove vige il silenzio e il resto è fermo, spargo conchiglie in aria, armi conficco in terra – Mille anni sono come sta facendo quell’ultimo re, quello che vige è sacro, ma resta lì in assenza – Il sole marciando in un bacio.
Era là intorno non certo lontano; si illuse di stelle e di specchi, trattenne quel che disse – Un dio scese qui, senza coltello, rapido gesto lo rimosse, continuò così ingombro d’altre cose, che la mente portava / confinato in uno stretto cancello, precipita la primavera. Credo al sacro, che sale verticale dall’essere, quando si guarda – Cose, vedo, sparse per terra e rotte / ciascuna esiste ancora, anche in frammenti. La legge intera, intatta, non si contraddice, minuta, nei dettagli – / La mano destra porta distesa, quel sole qualche volta spacca l’essere col martello violento e come da pezzi posti in ombra dal lato rugoso. Uno è uno, uno, uno, sempre uno, se lo rompi uno è uguale a due. Uno è uguale a due, se ne rompi uno si rompe solo il concetto; chiudo nell’uno il tutto, lo tocco ad uno ad uno. Un guaio, solo uno, era racchiuso e se lo rompo è lui stesso, così conto pezzi uguali o simili; nel nome, nella sostanza sta il diverso: quanto diverso? – Il nome si può rompere, ma non si può contare in due pezzi quando t’uccide – Il nemico ti recide il nome. Anche l’amore scende, scende e combina. A che livello di superficie siamo, uno o due? Uomini, dici – Ma non esseri, perché l’essere è uno. Il nemico ti scinde in quattro pezzi, così il pensiero è multiplo e disgiunto / altrettanto si divide in nomi ma non posso dividerli ancora – Il re era organismo, era il suo regno – Era la biblioteca di parole, che non sentiva ma che diceva pubblicamente – Era il deliquio strano, disatteso, del lettore che riconosce parole e le conosce.
Believe me, there are links in things which do not identified by night included by numbers. Quando non c’è nessuno ancora, prima che la gente si incammini.
Sostenere il proprio giudizio, quando è solo, non è agevole, ma chi si stanca d’essere sia maledetto. Boschi di alto fusto e noci; e allora non propaga il seme di tannino / Create le favole per contenerli, il marsupio dei popoli. Sono risucchiati, i versi di un animale misterioso si sdraiano acquattati e pacifici, per ora. S’acquattano i ruggiti a far silenzio, ma l’eventuale. Prima dell’eternità provvedi a questo: che i luoghi non siano infranti – La pace è rotta come il frutto in un giardino – La pace è già rotta come un uovo in uno scempio. Allo sparire dei luoghi le persone non si allarmano perché ci sono strade nuove a portare lontano. Non c’è nella noce la pace così rotta; l’ostrica bivalve non respira – Soffoca il tarlo nella tana espansa, che non ha via di fuga che mangiare, perché è cresciuta nella sua stessa vita. Non c’è scampo per il ratto sporco di fogna, abbiamo lasciato quei liquami nuovi, perché non c’è miglior luogo, ed il nostro sperma che la latrina – / Ma tu credi di venire, tu credi di esaurire. Qui o là non c’è nessun luogo che abbia il suo stare, per la provvisoria pace si fanno guerre. Compongono nodi e leggi garanzie, in un bosco fasullo di noci ed alto fusto; quanta paura faceva all’interstizio dei fossi, quanto all’umida gola. Tacevano i terreni irradicati: e così attesi che la nave poi salpasse – Il terreno degli avi si rivolta, si rigonfia e spacca da, da esso nasce un mostro pronto alla scorribanda, quando il tributo si dissolve e non reca fiori ai luoghi vivi e i luoghi maledetti sono fermi, e si potrebbe stare quieti pensando, ma la pressione aumenta fra rocce, senza segni, e romperà la terra con sollievo. Qualcosa attinge e sta per sgorgare. È venuto di traverso come un carro pieno di cose, di arance e di limoni, e alla strada fa ingombro, alla strada fischiate: il colore era trasportato lentamente e andava nella tana ad aspettare, aveva semi in corpo, avidi semi nell’umido terriccio, impregnato di fibra stava qualcosa persistente – Fuggii di lì, di lì fuggì il re, sotto la terra. Sono crespe le nubi e scuro il vento – Non ci sono più ombre su quei corpi. Chi guarda al segno ottuso, allo schiaffo maestro? Il coraggio s’addice ai guerrieri: si fanno soldati ma per sé non hanno prezzo; altri li devono pagare, per la loro morte – / La notte mi dilania, fatta della loro morte, perché senza prezzo e senza valore. Era la persona stretta nella persistenza e cambiava luogo, si ritrovava con precisione ad un contorno severo. Tutto taceva, scorreva e taceva – Non poteva fare altro che sapere il segno di sé stesso: il nome.
Lui pensa e pensando s’annega – Ho consumato cose per cucire, per cucire ho scucito nell’odore di ostriche la terra – Non sono qui per fare la realtà, essere un episodio (rifare), sa bene il re, questa è la sua composizione – Non c’è modo né senso di essere un diluvio. Nello scuro cappuccio che ripara, al vento la parola all’aria mattutina. Faccio un sussurro e piego la barca al fendere del morbido mare – All’inclinare attendo che la realtà si accartocci – Sono qui nella nebbia propagata, come se il sole non avesse altro bersaglio – Così mi spendo al mare quanto fu alla terra. Mi dissipo nel mare quanto fu alla terra – Nel guado lungo, sconfinando, l’immagine di paglia si accartoccia, sarà un cartoccio d’improvviso al guado lungo. Io sono andato là dove si vive. Piuttosto che s’accartocci, qui si assorba. Tutti ben sappiamo che la notte è penetrabile solo al suono / solo risale quando una paura la prende, quando la mente la prende come in una scodella – Una sola volta fiorisce, conosciamo una sola primavera. Piccoli crepiti, piccoli soffi, scricchiolii, poi divampa la fiamma alta che aspira. La notte è lieve e strana, cade, si sposta silenziosa – Un cielo puro è sospeso nel silenzio: le cose guardano, attente e immobili – Nella notte solo io mi aggiro in questa casa, mentre la primavera si espande e in poco tempo invade quando le ore sembrano ferme – Taci, re sospeso, nulla si appende all’amo – Io non abbocco alla notte che mi inganna di altro mondo, cappio, laccio e filo. Tutto sostieni intanto, persisti cielo e nuvole traverse, sostieni di stelle i lunghi lacci e persisti, tutto non si slaccia, non si accascia, mentre qui, per anni, tante volte la notte mi ha rivolto all’altra parte non abbacinata del cielo, mentre stavo solo, riparato, di là rivolto, quando nel cristallo si sosteneva senza che nessuno dicesse, nessuno volesse, nessuno sapesse aspettando che si chiudano gli occhi a noi esseri che guardano nella luce e nell’utilità del giorno. È così precisa la notte nel descrivere, mentre noi non vediamo.
Noi siamo marginali, della civiltà subiamo la violenza. Loro sono schiavi, noi siamo re. Noi percepiamo d’esistere, ma la primavera che viene, ad irrorare il sangue; alzati da quella schiavitù che ci ha redenti dall’attesa. E così persi, emersi, siamo noi sulla linea del cammino, alla destra la notte e là circondo, il libro di cristallo ma le pagine scritte e sovrapposte, le lettere attraverso si intercalano in un reticolo e un traliccio dove s’arrampicano figure, come nella stuoia e nell’arazzo. Pur sempre è ingenuo l’uomo alle domande. Pur sempre dobbiamo mentire, dire qualcosa. Il sole riassorbe quel che aveva dato: brucia e arrostisce, minaccia i viventi / il sole, che era santo, che era sacro, non ammette che si tolga ogni frutto al paradiso. Questo è il peccato lucido e finale, consapevole, e quel serpe lo sa, quello lo vede – Solo ciò che era bello era sopra le cose e dal bello fluiva tutto il miele ambrato. Allora c’è ben colpa, ora non è l’infanzia. Il serpe traccia segni rotondi al muggito della motosega. Il serpe ha i denti ripiegati, li protrae solo all’occasione. Ecco chi spostava i sassi, li spostava laggiù ad uno ad uno per dar peso all’altrove, mentre gli altri hanno sparso tutto il loro veleno per farsi spazio qui, dove non c’è niente; non con la caccia, non con lo sparo, non con urla e lame – Ma del veleno che non ha punte, ma solo rotonda diffusione che somiglia all’onda che si stende, al fiume che dilaga, alla macchia che il tessuto assorbe, uccide dilagando l’uccisore. Abitano nei cadaveri i consiglieri, come le biasche; il veleno ha già ucciso le duecento cose del catalogo infame. Cos’è questo silenzio, anche nel giorno, Besostri è morto, Adadio segue. Sul pilastro bianco i fossi s’intasano di fango e di mattoni e spreca semi e frutti. I semi li raccoglie alla granaglia e i tuberi li conserva sterilizzati. Cos’è questo silenzio, meglio la guerra viva! È un silenzio che scende negli orecchi perché è cambiato il vento. Ma i rumori ci sono intorno, impallidiscono sui fossi di macerie, ma non c’è flusso, sono andati a sfilare mascherati: chi imita l’insetto, chi la biscia, la tigre, la pantera – La libellula si è corrotta un’ala trasparente ed innervata. Si sono mascherati da animali, ed il regno è completo. La cetonia non ha più il guscio dorato e non va in amore, non depone l’uovo del suo sperma nella desiderosa vagina orizzontale; non ha più lingua la lumaca per parlare, la veste non ritaglia la foglia a cerchiolini. Dove sono scappati, dove sono andati; ed i crudeli predatori, se l’aquila convive con i droni, non lasciano i bruchi, l’intelaiatura delle foglie (il telaio) ibride in fila all’abbaiare dei cani – Non lasciavo il telaio delle foglie all’aspetto e alla comprensione e al suo disegno. Cercando quanto sia di sopra e di sotto / non vedo il ragno ottagonale stringere più la tela dal suo centro e non la vede, col periodico occhio esagonale, numero primo (vedeva), numero infecondo – Tutto è molto semplice per te che non produci, che la sua causa è artificiale e la tela si lacera, s’arriccia, e la brina cristallizza sui suoi fili. Vivono là nella terra, come le radici. Che chiarore d’insetti – Questa luce dura e si raccoglie e non conosce i tarli della mente. Che tarla e sbianca le parole che dico – Sa di una permanenza viscida e incollata. Io più leggero, io più inconsistente – Qui fra le canne c’era un sedile stretto, tutte le cose si potevano pensare; era alto il sedile, alta reggia, e là taceva, così guardando poi tutto taceva, tutto era assente – Tutta la ciurma sa d’essere e non essere e si appoggia sull’onda che ben regge, dall’istantanea e rapida creazione.
Sai, i ricchi sono strani, posseggono cose che non hai, a cui non pensi, posseggono il circolo del sole, che rimarca. Sai, i ricchi sanno contenere la morte lasciando le ricchezze al disperato cambiamento. Non teme odori scuri, graffi dritti nel cielo, non teme presagi, ma in quel punto una voce, mi trovai in quel punto e sembrava una voce chioccia d’animale. I ricchi sanno, da molteplici libri incamiciati, anticipare il ruolo della morte – Preparare i successori, vincere la storia. E non sono spaesati quando il sole risale in quel punto, quando il sole abbaglia risalenti nubi – Con sé si porta il segno, con sé consegna orgogliosi e interi vessilli. Al centro siamo quasi giunti, non abbiamo dissipato gli attimi furiosi. Sorgente, sorgente, che neghi? Il sole non è così grande da varcare l’ombra, neanche la piccola ombra d’uomo. Portati i sigilli della casa. Non ti è bastato vivere, che vuoi? Portati al sole la voce era presente, accarezzava; non altri, non posso imitare altri che non sono nella loro morte. È questa via assente, avviluppata, attesa, ma non tracciata in essa se vedessi un destino come lo vede il ricco, se sapessi in essa altro da me, se mi portassero cibo degno, forse un destino. Madre, di che hai allattato? Nasceva un re da queste nubi lattee, dal vento freddo che viene; mi hai lasciato ad un grembo estraneo, senza destino mi hai lasciato, inerme: troppo piccoli suoni e cantilene; e storie di pulcini, carezze… Dimmi chi sono! Portami il peso sacro che spaventi il nemico / non puoi scaricare le colpe solo / perché altri ne hanno. Comincia a soffiare il vento freddo, dal latte delle nubi. Lo fermava la notte. Questi cibi mi hanno stancato – Mettili lì intorno: gli insetti sono voraci, lasciali a loro. Ogni via è propria e solitaria, quando specialmente va a svanire. Qualcosa ondeggia ampio sopra il capo: libera le cose dal nostro possesso – Non rimpiango gli anni giovanili; stupide corse, stupidi piaceri, assumo le colpe, quelle le fermo su me stesso. Fissi in eterno il segno della sua morte.
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