LIBRO 96

Il tempo sgranellato

Il mondo preliminare

Le fate

La terra fecondata

Il terzo libro è senza confini, il terzo libro è smisurato, e porterò a rivedere straordinari colori, e come a tradimento l’animale disponga il sesso adunco per fecondare e possedere e trasformare. Questo e altri prodigi raccoglierò a ricordo, come una spugna o come una membrana.
Vienimi incontro dalla spiaggia verso il mio trono nell’angolo, di pietra, o mio diverso spirito, mentre i sogni si sfaccettano nel vento. Vieni incontro al piccolo re qui confinato, re di nubi e protetto fra i sacri fragori. Come è usuale a parabola vola la palla e secco schiocco di legnata, risponde l’onda, sogna vittorie e glorie il ragazzino. Non più voglio soldati come questi, audaci di una audacia che non scopre. Batti sul legno, mare, e suggerisci, vieni a sederti qui che ti racconto: come il bianco candore da lontano sia di luce comune alla palla e allo spruzzo.  A parabola si lanciano ed inflettono, su qualunque pianeta, come qui sull’estremità, a volo limpido e pulito. Così ti conosco semplice destino continuo di parabole e di schiocchi; curva scaglia la palla contro il mare e rigalleggia sulla luce a velo instabile e vibrante: qui riconosco il segno dei pianeti dove il pallido uomo si arrovella e lentamente la nave allontana e le circostanze ti dovrei spiegare, audaci e stolti, se più vigoroso li reinghiotte il mare. Non importano più le circostanze se dietro la palla e i desideri corre l’uomo e scompare dopo che depredata l’isola rimane. Ora è pronta e feconda per altre vite che ricerco. Dove formano nubi e dove ripiovono scure, dove il sigillo pongo al patto estremo e la nube si squarcia in un prodigio: una diritta asta di luce segna una direzione dove vado cercando la lingua ed il segno – Non perdere quel punto e quel momento, che i prodigi son rari e una risata dei sassi e delle onde li sbeffeggia. Vado all’appuntamento, ma non conosco il tempo e la distanza. Piove a piccole gocce e punge a scroscio una lettera nel puzzle si consumi e la riconosca e la rilegga. Era il segno ad attrarmi, era la nicchia della morte, era l’amore? Era la caverna che protegge dai sassi, era uno scuro essere mosso dal mare; non mi umilii il percorso difficile, l’aquila millenaria mi rapisce il re, quello che rifuggo. il saliente, il fermo sole. Qui vado ad incontrare o qualcuno o qualcosa: varo leggi fra i piccoli gigli non fioriti, vedere ed ancora vedere: ecco la roccia rossa, la foglia variegata. (Dio degli eserciti / raccogli la sua anima / in questo angolo di cielo riservato ai martiri e agli eroi). Alla croce ed ai venti al boccaporto – Vengo dal vento e non mi riconosci! Tempestato di sole e di diamanti penso come sia vinto dalla pioggia nel segno – E riporto quel segno e quell’incontro? – Sono nel luogo e attendo, nessuno qua risale a questa via, benchè non subito mi sono mosso.
Il mare sgretola i pensieri con l’urgenza che ogni attimo si chiuda e ogni ciclo si compia. Il giro si compi, di cui si compongono i millenni come raggranellarsi i soffici, vuoti, ciascuno come bolla. E il sonno troppo non mi prenda, da esso sorse un essere piatto e vorace, che lusingava le attese e il lento fuoco delle onde. Questi sono i gradini ed il suo scranno, l’acqua che la luce brucia e ritende su chi tu non conosci chiusa verginità, intenso spirito ridotto dal continuo magma caldo a poco a poco a gelosi frammenti sguarniti di là dal grigio mare, sotto la luce il popoloso abisso della notte, tesa ignoranza dalla luce, lenta speranza avvolta al suono. Tu sai, tu inventi ciò che è e non è, ripeschi il mio profondo polline di fiore. Muschio inutile bruciato sulla frana, cielo scolpito, efflorescenza di cosmo che l’ombra muove, che la ruggine ha vinto, granulosità di umido e di azzurro, nudo colore, campo da mietere delle ambrate spighe. Ritorno a te pelugine di luce alle spalle del mare, campo dei mille grani, delle cento parole diffuse e perse di mondo in mondo perché ogni briciola e frammento non abbia pace nel cercarsi e le connetta amore, sorge vaga dai minuscoli gorghi. In loro nasce il mondo, li ragguaglia, congiunge e scompone piccoli sospiri, prova unico suono e riprova, presso l’ombra che lo sventra, che lo attende nel gurgite pescoso. Io non ti ho detto ancora dove verrai, non ti ho detto ancora il fresco monte di diversa natura, che di astri diversi si compiace, come la capra nei sentieri dove il mare ieri era furioso, dove la morte mi ripraticava: astuta, nebulosa e molle vita, mi sgarbi accanto ai fiori che trascini, mi ricavi il seme dove non c’è pace. C’è pace nell’ultimo suo luogo, ti smemora e pace ritieni nella fenditura della roccia. Essa è la morte stessa mascherata, c’è felicità in quel compenso e tu ritieni nell’essere ventoso, in cielo il vento inflettersi la luce che li acceca, che contorce la roccia e la accalora, che flette e piega ogni tuo uso, che suscita la fame; che germina creature nel tuo silenzioso ventre acquoso, e aspetti e guardi che sgattaioli e scappi come la formica, meno che insetto, granchietto filiforme, lusinga di futuro. Sì sulla punta, ribadisce la vita, il suo pizzichio, il moto lento e grave, il mostro e la caverna, l’ombra fatta di vie, a me oscuro, guardo gli dei descrivere, congiungersi su ghiaie, sento e risento nel mio ventre scherzare, striscio di colori, come il sangue striscia nelle vene, sento rotondo rotolare a me aggiunto, esterno ed insidioso ed impervio di rocce mi ragguaglio come se fosse mio il profilo che nasce inesistente, generando il sommesso pianto e lentamente dunque dagli scomparsi continenti a preservare da esseri successivi, senza domande da fare e siete presso la buia roccia per lunghi momenti. Ogni essere in ogni forma è perplesso e stupito presso la dura e la persistente forma si rafforza e si rinnova di attesa in attesa, non prepara il sentiero ed il timore mi riprotegga – Infiniti animali che si deliziano d’essere ogni tanto al sole o guardando il possesso, individuati e soverchiati, attenti sulla lingua buia del pensiero. Sempre un po’ più vasti, un po’ più perplessi, che rifanno l’amore nel canneto preliminare, attenti, ma ad inganno piccoli ricircoli, piccoli ricicli e voci e suoni, piccoli suoni ascolta, minuscole bolle vuote e membrane ti assalgono e rimuovono uno per uno che a poco a poco prevale sul pensiero e lo riversa, e a poco a poco scende e ci cammina. Io sono madre nuova della vaga terra – Riprova – Che un diverso sentore ti ravvivi, ti sconcerti, ti pieghi e ti sconcerti pallido sole, tremolante freccia. La dolenzìa dell’essere avvicina cosa a cosa e separa e più utile madre, dove cresce la successiva luce e si fa rogo. Piega la testa, attendi come tutti i viventi l’ameba in forme che abbia sviluppo e ordine e coerenza.
Vedi, il terzo libro sorge coi dubbi, genera fiocchi, li diffonde ed aspetta l’alba, vede i primi passi e vergine si accende sulla roccia e non c’è dove, non segno, continuo e trasparente richiama il mare, gli spiriti salienti vaga di desiderio, e altrove, altrove rondini si risvegliano al volo come qui i gabbiani pigolano e si riflettono. Era un flauto tenue per ricominciare, era primo suono denso sul mio primo vigore, era primo raggio il segno della fiocina nel mare. Il cerchio e il buco era il dopo profilato nel cuore, il cerbiatto che brucava altrove, la rugiada prima del cuore, prima dell’attesa, il raggio gonfiava le nubi e lo spiraglio prima di essere si attacca al sole, prima che sia lo riconosce e stringe prima che sia, lo ritenta e feconda e cambia luce, come il sasso sporge dalla sabbia e scende dove non vedi, contornato di assenti millenni, sogno di sogni, senza bugie. Questo è il prima, il rotondo, la penuria dei gabbiani che segnano il cammino, delle tempeste antiche e smemorate i muti cristalli. Quel che interessa non è nato, sale al sasso di appoggio. Cappuccio di vento, adesso scala e rotondo percorso – Chi mi raggiunge, chi mi raggiunge là sotto le cose? – In bilico allo spaventoso, ai fiori delle rocce, alle fenditure primigenie, verdi e feconde, al franoso sentiero, al rotto scoglio, che conduce di là come una morte. Equilibrio che ondeggi sulle rocce ricamato dal vento, preferisco d’esistere in attesa, fra le rocce cariate, fra le crepe, nel dominio dei venti, sulla aggiunta luce – Collega suono a suono, qui tutto è rotto, rumoroso senza ascolto, e s’affettuccia e si accende e si incammina, un’ombra che si muove e che si aggiri al risciacquo non nato che persiste visto o non visto, si staglia sulle rocce quando il sole rimuove venti, non vede dove scivola il masso, dove lo aggiunge. I pesi si sbilanciano, si inflettono, ripiegano le attese del luogo, che pare fermo, ma scende come lava nel dirupo, conquistata la mia terra. Era il profilo di un’altra isola. Prima che tutto salga e cada, sugli esseri non c’era che l’assenza. Germi molteplici scendono dall’uomo, strisciano a margine, si appartano dai venti che il lieve fluido che ricopre gli strati ed è un piccolo strato legato dalla terra. Fino all’ultima molecola leggera e più distante salva al vuoto il vuoto cosmo – Questo mi dici, se quel che dico è vero, tutto è impossibile, tutto è meraviglia, tutto gioca nel sole ma ben oltre, tutto s’affaccia allo stupore, sguscia e si schiude, nasce sapendo e non sapendo, nasce uno spirito od un corpo ed appaia: contenitore di merenda della prima fame, di tutti i passi dopo che pietre e ioni sciolti ospitati dall’acqua il gran terrore di essere, la scura coscienza di essere migliori, costruiti dagli esseri e dal sangue divorato, dalla linfa di rocce e di aspri fiori, scrigni ignari di sapienza, di insetti, di lumache ondose e scolopendre. Chi batte sulla roccia, la ragguaglia? Era solo il mare? Era suo figlio? Contengo la memoria di ogni cosa delicata e vincente, sommario di come sia esistito, costrutti e riassunto della storia ed i vinti, i passati – Non chiediamo del dopo – L’amore che riprende sempre il doppio, il sasso che si scaglia. Siamo memorie, solo memoria del magma regolato di postille, di precisi segni meticolosi, memoria delle leggi e dei modi. Ora è il dilemma, se il cammino vogliamo invigorire e la memoria sia creazione – Non farlo – Disse Dio – Te lo sconsiglio – E lo disse la donna – Prova tu! Ma qui regola ferrea si impone dove andare prima del che fare. Il principe capisce il prima e il dopo e cosa fa memoria e cosa gioco. Si schiudano rumori da lontano, non solo il fare crea memoria, non solo questo vento ci ragguaglia. Non solo il vento sia la nostra culla di idolatre speranze, di maneggi. Ma un disegno avrà da prender corpo, nuovi governatori, come Dio. Quella punta rocciosa mi frantuma il pensiero, lo attanaglia. Dove gira il vento la collina, chiama gli uomini a raccolta al tuo comando, raduna le tue forze ed insegna, il grembo fecondato ed il suo coro, regola la minaccia, guarda avanti, avrà la gloria a chi non piace la guerra dove scende e si placa la risacca, dove il vento ed il sole mi ritace, dove la tortora regni sul suo regno, dove ogni essere è amato perché esiste ed ogni altro essere che sarà creato, sia sostanziale, cosciente o virtuale. Abbia giusta fecondità ed abbia membri e sia degno e fecondo, ibridi i segni, e ne faccia suo codice e memoria, da cui evolvano gli esseri, da cui si rifeconda. Ed era il mare, col potere nascosto che asseconda e stringe e attornia ed affeconda, prima di prima cosa. Sul gelido ventre della terra al limite del mare, il principe cammina rettilineo bordando il conosciuto a chi si affaccia, il conosciuto respinto, che sincrono e diritto corrode e dice sui rotondi archi segno senza parola. E ricade dal primo raggio il dolente stupore che sospinge sulle spalle ed avvalora d’oro il cammino. Il cammino che segue e che precede, senza nubi e governo lo delizia il sole e ripiega più alta la lucida sequenza delle cose che ravviva. La lucida sequenza che la scorre. Le prime tre onde vigorose, mi ravvivano attento, mi ritorcono quello che l’esatto profilo del sasso dalla sabbia circonda e richiede nella dolce forma chiusa. Tu nasci, tu sei più di me nata. Io qua interrompo fra il guscio spezzato ed il cibo rotondo. Misura i passi dei gabbiani che paralleli alla linea rifilano edifici, non di pietra, al naufrago esausto e nel tuo cuore, che ripulsa lontano, ad altra meta. Punta la roccia opposta al maggior vento che conosceva, il sole sorga dal sangue, tuorlo di fecondità, succo arancione che si versa sui percorsi tortuosi, sui sentieri rocciosi il vento posa. L’ultima vita è la più ragguardevole al pari della prima. Tu che giovane amore hai generato, come uno spazio aperto, una prima misura. Conoscimi come la luna che il vento si trascina, come nel tramonto serale la luna segue il sole (come nella sera) e la grotta sembra passi felpati di gigante. La mia poca vita mi ricrea, mi trova ancora stolto – Il sasso che si rompe nella breccia, l’ombra che esiste se non esistiamo – Per il vento migliore e tumultuoso il mio piccolo amore avrà sguardi di pianto come un bambino che ha già perso un gioco. Non sono necessario, sono un superfluo re, sono una foglia sottesa in venature, sono l’arrendevole moto d’ogni tratto di pelle, sono la luce dell’onda grande che bianca si frange, sono il mio dolore impercettibile e acuto, sono il sasso sbieco. Sarò senza essere, dove più si sente il mare tempestare in alto dove il suono sale alto alle rocce, alto ai sentieri di cinghiali. Dove sono i mostri che camminano, mostri corrosi. Sotto i tre denti che hanno preso il grecale, sullo strapiombo dove è un rischio passare, oggi più alto come il cielo offende l’alto. Sui fiori di rovina è il sentiero più alto oggi, il percorso dove la famiglia di idoli si aggruppa ed attende, ma uno è solo ombra, c’è e non c’è. Nessuno passa nel sentiero basso, il mondo è morto o sospeso. Ma l’altra pietra non è rosa ma infranta presso la morbida erica e il cespuglio, così dietro la vita dolorosa scorre un moto persistente, e lascio palazzi e colonie dove il mare è più tiepido e macina fra pietre di barriera, ed il principe vuole sia dipinto nel suo palazzo il riquadro di pietra e mare, perché della terra si rammenti, il suo popolo venturo perché della terra il suo popolo si paschi, come un giglio non la divori nella sua bellezza, diminuisca il possesso, riduca la colonia ed abbia cura. Pericoloso margine e suicidio di chi, cui tolti i sudditi e le guerre e il disamore. Quei fori aridi si tengano in memoria, si frugano in memoria nei festosi palazzi nelle ammirate navi. Non c’è ricchezza più grande e prorompente che il dipinto globale mostra con orgoglio il vanto che possiede e il territorio, il vento al precipizio, la misura di nobile persona. Dove il sole infrange i piccoli sogni di potenza, i miseri percorsi di guerra – Impara – E sia la vita. Rieduca dall’aridità il bianco fiore e sia nobile chi ne sia più ricco.
Viaggiava sdraiato sulla barca, lo sguardo al cielo. Solo il vento prosciuga al naufrago il pensiero: viaggiava terribile e scontroso, senza disattenzione, fisso a travalicare quello che è ancora senza meta, lontano da dove l’onda riscuote sulla riva, circondato dalla dama bianca incantatrice. Solo il sonno prosciuga la duttile memoria, circondato da direzioni diverse, intricate e multiple. Le tiene lontano come il fuoco le fiere, non sei perso per tornare sospeso sul mare che barcolla, tu non sei perso, perché non c’è dove,  nel sonno eterno dove non c’è dove – Voglio vedere un profilo che nasce e che ondeggia, come un pulcino disilluso. Il sogno mi culla e mi rapisce, mi indebolisce ed abbandona – Il sogno senza guerra mi ferisce di sbieco, mi allontana e il pallido cavaliere percorre la battaglia senza ferire ed essere ferito, scorre e ne corre ma nessuno osa ferire, fantasma bianco incandescente, dimorando sulle punte scoscese di nord-ovest, facilmente ti annienta nelle creste del nudo spruzzo, impallidisce gli scogli e li ravviva di veli d’acqua incandescenti. Che ne sai del suo manto, del suo pietoso tremito e il vigore? – Sai solo che bendato percorre le cascate, nella luce dell’incubo lo invochi, sdraiato sulla tolda, addormentato re sul bianco bacio ti risvegli fra creature incuriosite e riassopisci, pallido cavaliere delle tempeste, tiepida brezza e carezza. Seguendo il pomeriggio sonnolento all’alba delle onde tiepide nel mare, di carezze fuggevoli e frescure cui poggiano tutti gli animali, uniche degne della vita che trascorre. Facili ombre che scorrono di uccelli. Il principe si distese senza sponde, senza costrizione.
 
Re del tempo, che lo chiudi in scaffali, rubicondo re. Aperto nel vento vola l’altro futuro aperto, futuro libero nel vento. Come si richiude pagina a pagina e lentamente, da solo.
Non ci sono qui facce dove s’applaca il suono del mare. Nulla conosco di questo mondo lontano, dove non c’è risonanza, alta e asciutta, dopo il tragitto alberi si frangono all’orizzonte e sono lontano dal respiro che avviluppa. Qui si sfascia la benda come lontano il tremito del mare: e il dolore vuota le cose come gusci, sto forse per nascere? Appoggiato alla grigia membrana. Chi mi vede, chi mi consiglia? E chiamo mostri quelli che intravedo: intanto il rotondo percorso si è incrinato e corroso, si è frastagliato ed in parte è franato. Ma Venezia era pallida e bruna, divideva piccole scintille sugli ormeggi e il vento là si inalberava nel vuoto di un fanciullo, nei noiosi giochi, nel cuore mi risuona il morto scoglio che la marea circonda, sperso e spaesato su chi sia e sarà, con chi gioca il silenzio e cosa attende, dove nel remoto scandaglia? Nell’origine pescosa? Indietro a ventaglio e là dove l’imbuto è stretto, l’innocente incesto, la convergenza, l’orifizio minuscolo, la punta dello spillo verso l’aldilà, verso il prima e l’altrove. Toglimi dallo statico tempo connesso fra i due limiti.
Per primi onorò i suoi antenati da lui disposti in fila con le pietre, attraversando l’eco dei cani sospettosi. Il sole non si sa dove risorga, tutto pallido il cielo ad ogni ora. Ho girato pietre in verticale contro la forza della terra perché non morissero, osservato le gocce farsi cerchio e dissipare seguendo gli andamenti dell’acqua. Su queste pietre erette si ricostruisce dove ho sprecato la memoria? Succhiate dal baccano senza segnale dal silenzio e dal vuoto, radi ciuffi di fiori dissipano profumi umidi e ciuffi gialli rarissimi nel campo. Non c’è cecità più grave ed assoluta che bieca felicità. Per transitare sulla corda ci vuole cautela e non slegare i cani. Essa ti regge. Acqua che scrosci nel flusso ti riconosco da lontano: ti vedo che increspi, nascosti chissà dove i segni voraci del tuo flutto, i tuoi capelli fluenti, e ti allontani al mio cammino. Non è vero, non è qui chi sregola per orgoglio sfrenato, chi non regola e rispetta, chi non ammette tutto. L’uomo nelle sue parti deve progredire, non si può lasciare un pezzo senza sbilanciarsi nel vuoto: sia degno il suo cuore di rispetto e incontri la dignità. Dove romba il tuono grigio da lontano, dove ghiande e nocciole emanano profumo rispettoso dei deboli e dei vili ma degno, benedicendo il profumo della ghianda cariata, fra l’ultimo bosco e la radura dove non esiste uccello, ragno, o percorso, e il silenzio coltiva vite ombrose. Tolta è la comunanza e il patto, i miei sudditi hanno avvelenato i campi, i ragni non producono spirali, quello che è morto non si fa rispettare, non fa guerre, genera pace – Sono sordo o non sento fruscio di uccello in volo! – Le semplici armonie, le libellule rotte e gli sterpi bruciati sono immersi nella grande pace – Io porto la guerra – Tu l’hai rotta: tanto benessere, tante prospere spighe che si piegano nella pallida ignoranza. Cosa trovo ora nel mio regno? L’arrogante opulenza, il riso satollo, e hanno aspirato in quel silenzio i canti e gli amori. Percorro coperto, lentamente, la mia terra natia. La fame duole e poi brucia la gola – Di che credi composta la nuova terra? – A questa pace dovrei / portare guerra? Avrò il pelago immenso da riattraversare e ricercare la solitudine composta dell’onda; e ritornare. Qui vortici più meschini, e là, desolazione mi accompagna, sussurra l’acqua – Gonfi parti, mi frastorni da ciò cui posso ricominciare. Ma si flette la terra sotto i piedi. Oh, acqua liscia che sembri fissa e ti muovi nel flusso, ciò che ti hanno fatto, deliziosa dama, con sopraffazione è già mietuto, e già sole sbreccia le nubi e la mattanza divide la paura, che mente e si salva. E soprusi e orrende piaghe sulla Piacevolezza. Chi ne raccoglie i benefici saprà far guerra, ciò che prevale non è il giusto e non natura. È l’eccesso del vento che infierisce, è l’uomo che decide ed è tiranno come un monarca esposto alla rovina, è prevalso alla terra. E la cieca madre ha lasciato a vagare sui percorsi. Che prima dipingeva di fiori l’armonia. Sul tutto nessuno ha un solo diritto. Rosso e violento è il cuore delle nubi irrorato dalla luna, chiuso sono nel cuore della terra e vendico gli antenati – L’unico spazio sufficiente è siderale – là si aprono le valve della luna. Luna erosa a lungo sommersa, luna diffusa, richiusa nel guscio. Guscio torto, guscio moscio.
Non c’è l’alba profusa di fiori, non ci sono i venti dell’aurora – / Quel che viola la scelta e la speranza / quel che viola il tragitto e lo confonde – / Roseo pure roseo sulla terra fredda – Sono foglie riverse come fori che danno chiara luce – Il flusso si allontana su ripetute onde dove alla cascata il canto si decora e la rana si rituffa dentro. Non sentivo nel pieno gorgogliare la risacca e qui a lungo e siedo per capire dove l’acqua discende e poi ristagna. Dove il sole segna il terzo giorno abbracciato alle nubi, dove il piccolo moto e il grande moto si riflettono a tempo sulla stessa misura e la misura. Su due passi in un tuo lungo passo varco del sole. Quanto lento procede il pensiero e la parola, quale minimo e fra quanto sussurro mi richiede valicare! Divergi il tragitto e lo distogli, segui l’accurato percorso ancora e ancora. Seguilo traverso e dritto. Nulla c’è da trovare, percorrilo traverso e dritto, ma come nel gioco cresce il bambino così a margine terra rossiccia, cresco di potenza e di forza, non so chi sarò sul pallore del mondo, ma sono. Non gli onori o i piaceri mi preparo, ma la ferma coscienza, il riflesso dei piccoli fiori sull’acqua ferma che mille volte riverbero, mille consumo, e ribalto e fecondo. La spiga pesante che si inarca, un anello, un frutto che sporge e piega il ramo. Sui bagnati percorsi e i morti amori, un giudizio mi prende e mi risponde, fruttifica, semina, feconda. Lento è il progresso, il sole umido scalda e rivela libellule luminose, batte senza vento, alza il silenzio. Non si deve sapere prima, cosa nasce, chi genera non sa e non si angosci. Nell’umido acquitrino che riverbera hanno immesso piccole paure come veleni. Ma fiuta bene l’aria che sa di erbe fiuta dal sole ad elevare la terra, e vita mi riprenda e sia maggiore, tastando il cammino di fanghiglia e cantando con il ruscello che riversa. S’avviluppa il segno sulla pianta e la consuma, sono dove è nessuno. Sono fecondo più del melograno – Cadendone brutto nel sole – E piegato sul sole, cerco degli antenati la sostanza – Come fosse reale un solido o una cosa o piuttosto se il segno declinasse la vita. O piuttosto reti che si complicano e ripercuotono, servono disegni che si trasmettano.
(Sera) La luce gialla della luna flette la sera alzando il bilanciere ad angolo ottuso e spingendo in basso al lato opposto la luce ancora irrorata nel cielo. Quando non ero barlume della luce e poi fu notte, di luce bianca, di attese, di luce chiara e tortuosa, di conversazioni chiare coi fantasmi e le fate che l’ombra non occupa. Parlami fata nel barlume dai seni fatati, parlami quando inattese nubi occludono il cielo, eppure la notte non è scura ma traccia segni di crepuscolo soffuso e già stringe il più alto nel cielo, e tu, fata, mi paghi coi sorrisi e riappari luna dipingendo le nubi, e conosci, lento, il delicato amore gremito di carezze / scintilla ancora altro, circondato di nubi, e non conosce l’amore più puro: perché tu stai nascendo, e allora vegeto sopra virgulti. Come ti vedo bene nella notte che scorre di nubi. Fata d’azzurro che prendi le foglie, splendida fata, delicata fata che mi raccogli nei termini dell’universo, scegli la notte più scura che ti nasconda i tuoi pensieri e ti avvolgono i miei sguardi che più è buio e più vedono. Nasconditi nella mia notte tentacolare, i passi della fata nella notte sono lievi e conducono alle fonti desiderate. I tuoi pensieri scorrevano sul mare quando mi hai sottratto alla morte e in te, senza vederti, sento la felicità. Come se la mia nascita non fosse mai venuta, delicata febbre, leggermente profonda come il vento. Mi ripulisci con tiepidi pensieri che mi hanno riconosciuto, profonda notte che giri di stelle, che aggiungi simboli e parole, che possiedono tranquilla luce senza vento, amabile silenzio. Notte di tranquilli vapori
Le fate fuggono
Qualche volta non vale la speranza che detta il sole, per la vasta luce. Si conosca una stella di un alto bagliore. E una parola scesa su parola, sulle spalle al sole ci trasponga – Si riscopre a quel flusso – Scempio desiderato e la fata discorre presso l’alba, l’aspetta tornando sui miei passi che torna con lo stanco velo. Fragili attese, la mia lenta alba – Prima dell’acqua che scorre in superficie, brucia la superficie, accende fuochi nel diritto contorno. Le fate fuggono e scendono. Radente alla terra si misura il canto e più acceso ad ogni sua parola, già accecante in quelle lune sparite, ma nell’azzurro ancora cerchi quella luce già morta da millenni. Quella fastosa immensità della tua galassia quando dicevi promesse sulla sera. Ecco, vedo la notte sbiadita nell’azzurro. Tiepida notte che il sole dall’altro lato veglia e tradisce. Si riunisce la vita del principe e la mia sui riflessi superflui, sulle cose mosse e veloci, come il sole si appiana l’onda. Già mi abbaglia. Riscalda a poco a poco fiori di margine e nascondono nel suo vortice la notte che luminosa, stellata, persiste in altro dove. L’ombra del cammino si staglia opposta. Ovunque tu sia, sulla terra bruciata. Continenti devastati, governa e ammira le scintille che tremano come un fuoco in focolare, tremolano come fiamma e riscaldano. Tu che in ogni terra preghi e dimori sull’onda che scorre, torna alla vita, torna alla cascata che ribolle, torna al ricordo. La libellula viola si scalda sulla spalla come una richiesta e un prodigio – Si allungano ripetute esche anche fredde dove il bosco si scuote da rugiade e la luce scorre da boschi a risaie mature. Anche se diradata dal bieco gioco non si cura e si appende anche se mite, bella anche se mite e debole, bella come una fata, terra. Qualunque opera non fartela completa e totale, non dare spazio. Spazio alla morte, all’assenza in quella consapevole finché c’è uno spiraglio, un vuoto, una misura, un disegno aperto, un profilo aperto, un foro nel tessuto che tu tessi, uno straccio che ricomincia e che non compie. Quando non sei il tutto e non il solo, quando non segui le cavallette e le locuste e sei una di loro, quando tu sei così incompleto e solo rivergini i percorsi, li riprendi ovunque c’è la vita, se non è chiusa spero e come un guscio, per il rotondo guscio il profilo frammentato, la speranza che è rotta ed aperta, dove siano morte le generose farfalle, i cerchi neri, i lucidi colori, le scodelle e i piatti iridescenti – L’acqua ristagna sotto le ninfee – Perché allora non ho afferrato – Voglio vedere l’origine di questo, dove le conchiglie si arrendevano sugli scogli? – Ora dove il sole ingiallisce, come l’autunno, in un ciuffo, e dentro spio nel silenzio della terra, infinito percorso immane storia. Devo emendare, risanare, ricostruire la ragnatela che si è rotta. Dove sono stato? Ho seguito la volontà di un altro. Gli infiniti percorsi dovrò percorrere, non uno ma ciascuno come una costruzione sulla rete, imparando dalla rete magistrale del ragno, il più estraneo a noi, il più temibile e nascosto. Dovrò parlare con il ragno, dargli udienza (una immagine di ragno, con otto occhi, le pinze e ispide le gambe). Per il tuo bozzolo, dove imparano i ragni bambini a tollerarsi e giocare / ti prego, parlami o giudicami almeno, disponi le tue gambe per pacifica mossa. Comincerò con un quesito che forse sai, perché le scintille ad una ad una scorrono sul flusso ma insieme stanno, anzi per poco non risalgono. Nella tua saggezza avrai presto risposta, ma certo lo dico per desiderio (anzi ritornare) parlarti. Sai perché gli imbuti nella sabbia dura scava il formichiere (io vengo dalla notte, ma dietro e dentro l’io ed il tutto vige una luminosa notte –. (Sera) La luna ritrae il suo stupore, dipinge il suo sapere a poco a poco su notti senza sonno – Dammi un debolissimo futuro purché abbia un indizio da chi sia abitato. Sono niente stanotte, sono solo un insulso essere umano che profonde desideri audaci nel vuoto stellare. Ci saranno pianeti che ruotano lentamente e in un giorno, un sì lungo giorno si consuma la vita. Ci sono pianeti dove i coralli ragionano di storia, specie di ragni si scambiano carezze rumorose, immagina ogni variante ma resta ignota la vera fonte. I pianeti si scambiano la luce, ma la luce è lenta. Il cervello è greve, gronda di stelle. Un segnale questo non di luce. La patina si stende universale. Come possono stare le vite così brevi tutte separate. Suggeriscimi una teoria dentro la vita, dentro il pensiero – Rapisci me stesso e mappando l’universo come dèi dettami in sé / come se i fiori dove sono? Come se i fiori che sbocciano non potessero toccarsi.
Quel che doveva avvenire forse è già avvenuto, e la pace accompagna in alto farfalle per vapori di sole, superflua. Esistere non è difficile quanto saperlo e poi deciderlo, e smarrito nel labirinto delle decorazioni. Essere il fulcro, nella pace d’azzurro: l’ago, che penetra, e il coltello che separa quello che deve essere unito e se molte funzioni si disgiungono o rompono, declina tutto e muore. La vita è decorata, ampia, ricca: non trovi niente, ma non sia niente e nulla. Tutto ciò che guardiamo siamo. Chi è morto nuotando diritto lo sa che la linea non prosegue e non spezza se non in un nodo. Quanto decora l’acqua e il fuoco e il vento dalla loro semplicità. Nei primi elementi è impresso il codice.
La terra fecondata
Un pomeriggio pregno di volatili insetti, che foglie dondola appese a ragnatele e stacca dagli altri.
Pizzica il vento le bugiarde fate che velano il giorno dei molti strati alla bambagia del sole, che attendono la notte per meglio avvolgere e filare, e allora ballando e stracciando le vesti impigliati sui rami, si fingono demoni e sono la terra. Come le promesse si intricano nell’impossibile, il desiderio inesauribile non si spegne nel possesso. Ma la promessa di fecondare la terra si dipana in un esasperato orgasmo. E tu pura fata dove sei che il brivido prendi. Come una perla felice, regalo senza prezzo e più alto alzi il sacro còito al purissimo azzurro, al religioso rispetto delle genealogie, ciò che immane e trascende, purissimo amore, dedica al desiderio della terra. Caldo scrigno dove accolgo e bevo, tu che mi accogli e bevi il palinsesto universale, e in esso puro nel micelio di fata immettere chi sa governare, che sia la terra a farmi posseduto e giungere con lei. Delicato amore di sfuggevoli vergini verso le ombre. Non donne di lignaggio e benefiche streghe, boccioli emanati dalla terra che non contamino, nell’agguato lento sul profilo intatto, sapienti del luogo e la funzione, correlate coll’eccitante cosmo, qui e altrove come ogni dea, sorridenti di gioia, ombreggiate dai chiaroscuri, umide come il sottobosco, carezzevoli e mosse dal loro solo scopo. Altro non c’è, se non la forza della terra che ci rivolge e brucia e delicata si impossessa del nostro stato d’esistere e lo feconda. A te allora obbediamo terra per più forza, per più attrito, perché lo spirito è smunto altrimenti. Tu che nera alletti il principe sdraiato sulle foglie, prossima fata e disperato amore. Liberatevi un giorno, o una notte eccitati pensieri su colli primaverili, non cercando più dopo l’amplesso, un dove, un perché, un ancòra. Non è questo proprio dell’esistere e sentire. Del lungo viaggio forse non importa la sconfitta, il tranello supremo e l’armatura. E la mia fata delicata aggiunge l’impossibile amore. Sconsiderata breccia / attuale volontà, benché assente. Terra, la pura terra, continui sregolata. Suggerisco il possesso del vago e dell’assente che i capelli di fiaba snoda sui miei pensieri nella notte e chiama la terra fertile, e nel tepore insano si abbarbaglia. La terra che rinutre e mi rialza. E non riesco più a stare né a sapere cosa sono le cose, cosa i pensieri. E la mano s’arriccia sui capelli. Di quello che mi incarcera la mente. Possiedi terra, ti consegno l’uovo cruciale e poi proseguo. Sono ora fecondo di qui, e poi posso andare con forza della terra e concretezza. Mi riconosco sabbia del terra. Che mi vaga negli occhi una nube che dice: allora, allora che perfondi? Che dice pallido incontro, cieca immaginazione, e la nube trattengo che mi disperde e in questa nebbia conosco più cose del capitano in mare che veleggia – Della spossata vita che perdura.
Venere è nata, eppure annuncia l’alba che la cancella. La più scura parte della notte è già finita. Aspetta il tuo cuore che barbaglia e insegue il plenilunio, o forse infetta nell’attesa, perché so che le lucciole proteggono i pendii e la mia luce attrae farfalle. Non è ancora il momento, non è ancora / mentre ombre rotanti / suggeriscono la cosmica irrequietezza / di sostanze impalpabili e lontane. E sorge presto il metro e la misura. Era l’alba furiosa, temeraria, che diceva: voglio vivere ancora. E non dormiva anche se il sonno vorticava congiunto per sottrarmi. Ero già attento, giovane come un dio e tu in attesa, come se ti mancasse il proseguimento della terra e la misura. Certo è più chiaro il tono della luce / certo io sono – / Certo è nascosta, certo tu sei, composta e delicata, confusa e delicata, sospettosa e confusa. Valva schiusa, viva, attesa di riattese, fresco respiro d’aria e di stupore, vogliosa dell’amore. Il mondo si distende e si misura, dalla tiepida notte si riespande un fiore rapido come la luce, ma se quello che è vero non è certo, almeno il tuo calore ne farà riprova. Il tuo calore nuovo ed azzurrino, stella primaria, il tuo colore rosa sulla pelle / era la nebbia scesa e solitaria, era la cascata che frastorna / tu inconsapevole, dormendo non sai le pronte messi e non risenti il battito del cuore. Cantami il sole dal tuo sogno fatato. Dormono i grani pieni come stelle nel campo stellato e vi raccolgo la messe intera, a questo tempo maturo del cosmo. Profughi dalla terra – Il grillo trilla acuto e si sospende assestando la notte in temperate caverne, buchi e ritorti steli – Ma lassù non sanno, preme il futuro che non è il canto gracile, il rombo industriale, la macchina fremente che macina e produce troppi figli da una sola idea, il vento si sposta e ne distoglie il rombo e spighe rugiadose di ritorta nebbia luccicano in un gruppo / di archi o spigoli spezzati ed intrisi, cantando piccoli canti di rigurgiti e delizie dell’acqua, cantando, il silenzio pronunciando – Il futuro è l’idea che non ristagna. Non lontano perdurano nel vento voci di antenati ed ho contato indietro fino a duecent’anni colle dita. Dove sorgono fiori di cardo e le trappole tòrte e le tagliòle tagliavano i percorsi, eppure su ranuncoli gialli, giunchi accesi, lasciavano contorno alle foreste, oscuro accento e tardo luogo. Ho poi contato quanti sulle dita,
stando
nel bosco morbido e vedendo la ragnatela colle venti spire: di lì sarà la via contando e ricontando nel futuro cosa siano quegli occhi che riguardano, cosa sia il segno delle decisioni, cosa sia il segno nel provvisorio silenzio, nella rotta parola che mi insidia, di quella guerra perdute le ragioni, e di un’altra e di un’altra / conteremo ancora i seguenti soprusi? Qui nel bosco solo di animali, qui nel desiderio non posseduto e non riposseduto. Mostrami la potenza del tuo sesso, se è vero che la femmina pallida e desiderata genera foglie ed animali, genera frenesie senza luogo e possesso, contiene l’uovo bianco che ti chiama. Conta avanti cent’anni, commisura la tua immaginazione e cosa lasci, cosa rigeneri e attendi, perché stupisci. Scintilla nuova genesi: mi chiede il governatore, perché non bevi mai, perché non mangi – Per distinguere il vero dal presunto, entra nel vuoto, come tartarugacon le parole ambigue ed elusive.
-Ritrae, ritira, attrae  e respinge.

 

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