LIBRO 74

La materia rosa

La luce sorgiva

Dove vai principe?

La fecondità con una ròsea dea  

la guerra

La luce diffonde, lattea e rosa, sopra il cielo, anticipando la vita. L’eco del sole sorgivo e sulle nuvole alte. Il mio cuore lo cerca, più alto della terra nera. Dove si estendono le misure divine, qui più ristrette sulla lunga via del muto silenzio, senza fine. Più lontano aggiusta il vago limite. Il silenzio contengo, non troppo freddo, non troppo acuto.
Dove vai, principe, le foglie sono nere sugli alberi? Incontrerai la tua fecondità con una ròsea dea? Sarà la nuova stirpe degli umani, mentre le gocce brulicano dagli alberi ne scende un minuscolo tonfo, l’ultimo contenuto di fecondità, l’ultimo seme. Allora lo scoppio ti ferisce nel cuore, lo scoppio termina le dee. Non me, ma da solo, ma la stirpe del possibile. Altre popolazioni entrano nel regno. E qui il principe clandestino si nasconde e non si svela. Non c’è mito intorno, sono spente e vuote le foreste. Non c’è direzione nella loro guerra, mortificando il colore assente del girasole.
La luce leggera: precedeva i graffiti, eco del sole, che avrebbe tracciato basso, aprendo a mezzogiorno le farfalle novembrine. Era la stagione della vita, comunque, ardente nel gelo e affossata e gonfia come un fiume; era la stagione ancora della vita, gonfia d’acqua, non ancora gelata, ancora nera sui rami e sulle foglie, appartata e muta, era la stagione della mente secca come uno stelo, era l’ultimo colore di fuoco che illuminava i capelli setati come filo di ragno dove la forma di arco, il solco della schiena che tende l’ultima tesa freccia dell’amore. Tutto il gravido gioco, il simmetrico, carminio colore che apre di velluto le improvvise braccia. Oltre non può andare la terra girando? L’ala bruciante (ai bordi) bordata di nero. 
Mangio la luce inclusa in puri àcini, tersa, suprema, tesa, deliberata ambiguità, un giallo germe aranciato, velata ombra granulosa, carnosa come la nebbia raccolta dall’alba. Così scoppia in un colpo la pelle pressata, il teso involucro, la buccia e la trasparenza si scioglie in uno zucchero intero che ricontiene e invade ciò che è contenuto, silenzioso zucchero universale, ombra dei sapori di un impulso ritmico e globale, liquido disteso e compresso, riavvolto in una ombra vaga e una luce, raccolta come un puro universo, un tiepido cuore, uno stato iniziale, un centro oscuro che si diffonde statico in un delimitato uovo, un guscio e una buccia percorribile come un fuoco fermo, un nucleo e la stessa bellezza. Vedo la stessa bellezza di cui era ornata, ripetuta, riprodotta, traslata, già esistita, come la madre appare in uno splendore di Venere, presso la figlia, vicino all’apparenza nuova di quell’amore che vi creo, come un bizzarro bisogno di giovinezza. Acino pieno, anima zuccherina, matura per l’amore ma ancora intatta, e così teso l’acino trasparente dei piccoli frutti. Scivola il mondo, un cuore d’ombra impreciso che ti stupisce, te stessa stupisce, cuore diffuso d’ombra. Nella tua bellezza, il preservato desiderio che non è sprecato, misura e abitacolo di fiamma, fermo vapore di fiamma, sospesa ambra e miele di fiamma. Bellezza estrema, lontana. Vivo, terso, colore, patina pastosa, densa melassa, profonda oscurità del seme vivo, foschia della pienezza, lucido seme che sarà orrendamente estratto, scura invasiva, vuotezza che moderi la luce, succhi ad imbuto il miele primigenio, succhi a piacere ed arrogante esisti. Questa rivalsa tetra, taglia l’àcino sceso colla lama, scoppia il bulbo, lo estrae, sviscera, scorpora, enuclea. Questa è la vile guerra che cerca nella luce il nostro stesso mostro e lo trova profondo sotto l’amore, nel viscido dolore. Sotto l’amore pallido, ammirato, sotto il perfetto suono, sotto la fatica di tenersi luce e bello, sotto la fresca emozione dell’amore, sotto la sua speranza timida del re ardente, vedo il velo offuscato, l’intangibile accettazione che vive nell’amore. Tu hai toccato una santa giovinezza, guerra feroce, che stermini la stirpe. Proteggo te ora, mio tenero nucleo, mia sfuggevole e autonoma ninfa che percorri la luce delle acque e mediti e fuggi, e guardi e rincorri, giocavi come un cerbiatto capace di suscitare confuso amore, imprendibile, intatto, limpido e dissipato, che non possa mangiarti. È sospesa penuria, delicata e permanente assenza, pienezza del tuo scomparire, allontanarti e dissipare. Luce viva ed intatta, l’ammirarti che beve l’unica emanazione e non la consuma, ritratta (trattenuta) in una composta dissipazione. Tu sai cosa contieni, amore? Quella luce e quell’ombra, quella perla setata. Seta di luce alla mia sete. Madreperla ambrata, stai così, discosta dalla guerra, dove continua l’illusione di pace lievemente torbida e opalescente al mio sguardo. Magra, dinamica chiosa della metamorfosi, dove opposti si stringono, e cosa declina, si avvalora, di cosa cresce e rinsavisce e abbandona e rimescola nell’arancio vivo. Fluidi punti, posizioni che si intrecciano e muovono ed il mio regno diventi tu, che lontano esisti e scivoli via, ma ritorni, ti arrendi, capisci, confondi l’attimo con il permanente, ma sgusci e riposizioni i punti tiepidi della luce. Tu sai le molteplici ombre, mi appari delicata luce. La guerra è lontana dal gràppolo fecondo: voglio vedere mangiare, la luce e la giovinezza, senza fecondità, nella statica luce, avvolto nell’ombra come un meschino. In questo antro capace d’amore. In questo antro stato umiliato ed orribile, dove non posso ricevere amore da una libera libellula, da un fiore. Trova profondo spazio, trova triste assenza, se il suono si raccoglie dal buio, esce e penetra e assolve dove io sono, cercando e scavalcando la mia presenza intermedia. Dove io sono, dove si terge il cuore dai ricordi, dai fatti non avvenuti, dagli stati non raggiunti, mentre la morte mi mangia a poco a poco e il bulbo dell’àcino confonde – Con essa sono consono e già scorro in un fluido primario intatto e senza luce, arreso e senza voce (platino accorto, remora). Flessibile e ondulante come il canto, piegato come il canto. Salgo e perforo, mi arrotolo al vento di molteplici tralicci, risalgo i rotondi percorsi, gonfio i tronchi di anno in anno, come biscia lentamente striscio all’insù e nei millenni mi infiltro velocemente in quei tempi e gonfio le squame di albero. Sono uno spirito ruvido e scorrevole che sinistrorso avvolge, il centro sussulta e si accoppia in foglie e strati e membra, breccia al canto che si sovrappone e si ritorce dentro il cuore, che non può fronteggiare, può solo stagnare e infiltrare le fessure come un animale modesto e schivo. Rintano e scrivo sui muri fermi della prigione universale / scrivo, imprimo sulle mura dell’universo; scrivo sulle pareti dell’esistenza, come un folletto.
Il deserto continua oltre le soglie insabbiate, terribile allo sguardo, tenue nel colore, al tanto del vento l’impossibile armonia. Così, così di sbieco mi metto, mi pongo al lento sguardo come una conchiglia che pallida appare e si ringuscia, caparbio vento che si piega all’attesa. Solitaria assenza, senza traccia, senza vita. Se lo sguardo percorre e rientra, non riporta conoscenza, porta solo il canto del vento, solo l’arrendevole attesa. Ora che travolgono il sentiero della guerra, qui mi abita nel cuore, minore. Non chiedo niente al meticoloso deserto, sono un viandante, un intruso.
Sono un principe viandante, fra poco sarò un mendicante: non partecipo ai commerci nel mezzogiorno grigio: avevo un destino e me lo hanno rapito – Una folata ricopre di pioggia il viandante – Il vento piega la pioggia sul viandante affaticato, era nobile il principe che camminava. Eppure,quanta può essere la nobiltà senza più destino / Confuso si inoltrava su pendii.
Quando un pertugio si disfa ad Oriente e molle risale il sole come un beneficio, il sole trovò uno spazio, uno spazio limpido e nuovo, la natura si inabissa nel fango senza scivolare. Dove è stato il vento sconosciuto, quel ghiaccio teso sul viso. Il calore risorge lucido e vuoto e propugna l’attesa senza gloria e in esso cadendo, da quell’abisso abbagliante discostandosi un poco dal pallore, in quell’abisso abbondante trovando, raccogliendo i minimi dettagli. Questo è il pianeta, questa la deriva, quando arriva la guerra e ti costringe. Porgo gli elogi agli antenati, trovo calore nel tumulo, su cui un timido raggio che perviene dopo la notte, dopo l’aporia. La terra restituisce l’odore dei morti, li esala al calore. Questa è l’alba perfida del giorno. Di coltello è stato tagliato il filo del pensiero. Arrivare e viola e gialla sono le case nel percorso, fra cui si riduce il vento e i vetri tagliati in cui si scompone l’arcobaleno.
Se la nube scoscesa, come di un mare,  traccia cadute e tonfi, spiega le ali. Non è l’esito informe e non la morta guerra, non il perso destino, il manto stretto – Portare la pace con la guerra: a che cosa sono chiamato dalla mia isola? A fecondare una dea? A portare una guerra? A sedarla? A instaurare la pace con la guerra? Effige degli eroici andrebbero per l’esercito, gloriosi. E così cosa fondo? Una stirpe guerriera? – Senza di te la guerra non si risolve e non finisce, solo eroe necessario, disperso in questa marmaglia, sono confuso e stanco – Così il nobile pensò, si avvolse nel manto, come una farfalla che l’ala esterna aveva grigia e striata: chiuse dentro il suo colore di fiamma. E scomparve perché non provavo niente nella nebbia, perché ero offuscato?
Bianca e spinosa è l’alba. Trattiene ghiacci in piccole scintille. L’acqua si ferma e tace, raccoglie l’ordine e lo dirige variamente; calibra e rispetta gli angoli della luce, nei cristalli riceve e rifrange togliendo l’ultimo calore, un ricurvo percorso non mi sia più consentito, ma geometriche frange, acuti spazi, nidi di ghiaccio e così il freddo senza riposo, la nicchia inospitale, la ferocia dell’immobile, svuotato di calore, dove non dorme. Il musino tenero, il capretto nel nido affollato, gremito come in un grappolo del lampone che si racchiude nella notte. La morte li invase tutti, li prese e li distrusse. La morte si insinua leggera, dove non la freni; attende come un argine, se il flusso si assembra e spinge e talvolta (l’uno imparò ad essere felice senza ragione) ne erode una parte, che frana / non conosco più dura guerra delle guerre. Uomo pigro e sgusciante, la contieni, tutta già la contieni, la aumenti, la investi.
Non è una calda, responsabile, la morte, che viscida e informe traccia i pallidi sentieri. I sospesi destini, i confini slabbrati e mobili, i ragni insonni, il mescolamento delle truppe. Non c’è arguaggerato apparso che non sia contorno e raggomitolato, che sembra vita come i gatti. Cerca di proteggere, come un destrimano ed avrai il suo composto propagare emulsiona sopra le misure.
Inseguito dalla morte, che non compie i destini, alta la luna, che non dice l’ora della notte, eppure curva nell’arco come il sole, nel chiuso scrigno ho un dono che non so a chi consegnare, di fronte alla guerra, alla modesta guerra di uomini. Come se i profeti modulassero i segni della prima luce argentea, omogenea, sopra gli uomini, sopra ciò che sia in alto e in basso, si ribella e sorge, si scioglie da ciò che appartiene e corre e genera e rintraccia, fiorisce delle proprie volute sulla piantagione, sul sentiero. Ciò permane sulla persistenza normale dell’acqua. Vola il destino, rinasce e cuce, abbraccia fili, li tende, li aggroviglia, come il tempo li dipana, essi sono le menti che dal pensiero emergono e sprizzano e si riperdono, ora la luce li spegne, li ragguaglia, li appiattisce, e diminuisce la già breve brezza così come la ferocia tra steccati e torri. Sull’inviluppo dei venti, tracciati di stormi trasversali. Là, le potenti torri edificava sul loro tracollo i simboli ricurvi, il cammino precario e ostacolato degli eroi. Quel che non conosce morse rapido come il vento, che non incalza la morte, libero come il cielo, perché è deserto e sabbia. Che la fiammella si accenda e si rimbecchi, uccelli e condor sono ombre volanti dei profeti. Stretto fra le due morse, non contengo amore. Dimora nel buio, nella scura stanza, dopo che la porta è chiusa: non è un vivente, ma è confinato, dimora a lungo e, se potesse durare, il suo carcere all’infinito, se qualche ciclo ne valesse il tempo, così si sostiene, squadrato fra i suoi, seppure non visto sempre esatto, muto fatto di silenzio, senza profili, interdetto, sta senza di noi. Non contiene la morte, perché essa è altra cosa, non guarda e non vede, lo scuro, il pallido continua forse anche quando lo invadiamo. In esso si contiene l’oltre, il magico, il germe e il dopo. Se la perforiamo dall’esterno sappiamo che la stanza è invasa dalla luce e lì il buio si perde, si mischia e si attenua, perché noi vediamo solo quello, vediamo solo quello che c’è quando siamo dentro e quello che non c’è quando siamo fuori. Così, con questo esperimento, vediamo il buio miscelarsi e fermarsi, lungo e paralizzato. E sappiamo solo quello che non c’è: dietro la luna, sotto la fontana e la cosciente illusione ci sostiene, basta non volere (basta essere fuori e sapere), basta tacere, come per un cancello non passa creatura, come per un pertugio passa l’essere e il sapere come il vento, se si muove lascerà un vuoto o una rarefazione, come la dovizia delle cose lo inonda e lo spacca.
Luna accespugliata nel chiarore, flessa ad Occidente. Il mio spirito si inarca come un gatto e scende morte tracce: non conosco il volto freddo dell’autista mattiniero. L’acqua condensa presso il fiume, il principe è bambino, gioca perplesso, dubitando stupito se quello deve essere, lontano da sé stesso così combina la vita nell’acqua appannata, nel gioco insaziabile, seduto fra le cose, fotografato, avvolto nell’essere, osservato, esistendo fra gli esseri, giocando senza gioia, se potesse muovere il sole in su costruendo i pensieri, essendo senza ancora essere. In pieno dormo sul sole che si alza, gioco col sole disciolto ancora più bambino. Chinato il capo dormendo, in avanti, sussurro dei cespugli e della luna. Cada nell’acqua ed il profondo gioco calibri attento. Sacro vento, vola! Il gioco conosciuto, l’annoiato gioco, senza rumore.
I rami sono sospesi come oggetti, il fieno è sospeso, la nebbia si arrocca in pallore, il futuro passa per il regno, affoga, si divide in gocce sospese, individuali. E non ha traccia, così non c’è nessuno per chiusura e asseconda esperimenti e invisibili cavie. Il sole si intesse in rami trasversali, come bugie. Scorre in flussi meschini, scivolando nelle foreste come un topo, e ritorna senza riflesso, infrange gusci sotterranei ma superficiali, svapora la terra, la fermenta, la spugna, come corolle nere; questo è lo spettacolo dei vermi, disorientati senza prospetto, un percorso supino. Non c’è verità nei vaghi intrichi, assenza di vento, follia, intenzione e ritorno, assenza privilegiata, rotonda. I raggi trovano spiragli fra le case, disegnano losanghe, tracciano contesti in cui gli uomini abitano perduti; così, perso, il destino rivagava – Così, chiuso in questo sgabuzzino, sollevo il primitivo, lo fratturo come il guscio vuoto di nocciola o noce, senza mallo: frantumo e cerco, mi faccio spia (cercare nel primitivo, dietro, che connette e ricollega i raccordi negati e spezzati, le interferenze ricucire). Gli oggetti stazionano dove li metti, possono morire, ma non si danno destino; come spesso noi stazioniamo nel buio.
Il mare aspetta, aspetta vorticoso, senza conoscenza e ignaro si impenna ed abbatte, su una terra fluida, fusa, infuocata, respinge così la terra i flutti, rigurgita e solidifica. Così si tracciano i confini, passeggeri, imprecisi, impervi e combattuti: non possono approdare le tartarughe. La guerra non ha avuto un inizio e non rallenta, non produce erosione e non lisce caverne, non descrive, non scava, traccia leggi, linee, figure. Il magma non finisce e non conosce. Così la terra rigurgita nei pianeti, nella preliminare desolazione, muta senza un’attesa, senza un ricordo, nel fluido denso e smemorato che rimuove relazioni, con la stessa sola regola. Aspetto il mare che riterga la lava, che la lisci e si ritenta, scende come il vento, si ritorce, illumina, riflette e poi decide, contiene lampi e strisce di pura luce, riflette luce. Forse raggiunge da una altezza, forse traduce, sposta, convoglia, chiude persone, forse trascina il destino, stride e frena e raggiunge, attorce, chiama, aggiunge la mia pallida attesa, si rivolge, scorre, non conosce, affida, culla e scuote. L’abbandono riscuote il destino, aggiorna i sensi, conosce i delicati fluidi, nel moto li raccoglie, agita inverni comuni, li raccorcia, li muove, li arriccia, che i pensieri divisi e pacifici raccolgono il ritmo e la dinamica, il flusso del volo, e poi distesa su congelati pendii per venti e colli. Sempre più vuoto e rarefatto, sempre più disperso, come se la linea si rompesse e animali guardassero dubbiosi, e mi chiama nella nebbia solitaria, mi chiama nella nebbia senza ghiaccio – Questo bambino lo lasciava a lei, che è la maggiore.
I disegni delle ombre sono labili e corrono sugli oggetti carezzandoli. Il tempo è composto di cicli e non ha limite finché rimangono isolati: quando si toccano si infrangono e quella precedente misura del tempo sbiadisce ed è erronea – Se la radice a forma di cane affonda nel muretto, il ciclo si spegne, la propaggine affonda, il ciclo si infratta, si nasconde, là la terra si apre e ricontiene tutta l’emergenza. La paura si spegne e riflette come era sorta. E si sgusciano i cicli e si aprono e si ricompongono, si intrecciano, si affollano, si incerano ed il tempo si slabbra e scuce uno per uno, maturano e mostrano il loro frutto, si aprono come gusci, come percorsi storti e quieti, della confluenza meschina si riadorna. Riccioli di tempo, sordina vuota al centro: occhio del vortice. Capelli leggeri come un velo, antidoto contro la morte, come lo spruzzo di viva fontana, come un delicato spruzzo; un piccolo incendio fatto di vento, una farfalla con bava di seta, una traccia di gelo. Un accenno di brezza, un vento occulto, un delicato schiaffo, un delicato tratto che tu, amore, che raccoglievi i principi leggeri e svaporavi i tratti, i segni, i sentieri di ogni concretezza. Avulso dai pallidi percorsi, quasi inesistente, eppur maggiore; cieco alla vita. Vi ho amato delicatamente, piccoli tesori, umili tradimenti.
Dove lucido e statico si riflette per le vie sommesse ed infinite, concentro il mio piacere nel sole, qui nell’esistenza del serpente gode del sole come uno stecco o una foglia o un colore, gode dell’esistente come un bambino ignaro e vuoto, come un fermo sospetto, dove l’immagine è un rettangolo muto, dove la vita disegna un segno ai suoi occhi prosciugati, alla severa regola dell’uomo che crede futile il permanente, la povera cosa è fuori dall’immagine a riquadro dove reciti il vento e lo stagli, dove il destino ti cerca, il destino ti cerca e tu ti acquatti di misura solare e tracciato come una serpe, pelle di serpe decorata e viva.
Sorvolo il centro sopra le ingiurie e vìolo il vento come un gabbiano. Conosco il vento, steso come un lenzuolo, ed adorno pupille. Sorvolo il centro delle cose, che sia basso il terreno, basso ed ottuso, sorvolo il mio centro di lenta grazia, che uccide pecore ed agnelli in sacrificio: l’antico centro muscoloso e vile. Sorvolo la notte, con i suoi scuri accenti, i detriti e la ripiego raccogliendoli, ed uno ad uno i mucchi raccolgo. La mia notte scura che agile si infiltra e incontra pietra a pietra. Debole e astuto, dove il destino si specchia e si ritira, sorvolo il destino che sta là morbido e senza oggetto, privo di me in volo senza attore sta là vuoto e feroce, morbido, e assale e prende in prestito persone. Scende, scivola e si aggira e se non trova attende e smuove. Lì sta il destino, decentrato, assente, e lo rifuggo sperando si esaurisca la feroce bestia. E mi mortifica. Destino d’uomo o di serpente dalle zanne bianche e tese. Quel destino lo affronto e lo uccido. Lo affronto e sgozzo come un capretto, la quiete stagna. Non spegnere il tuo destino, fuoco, non spegnerlo mai, mi raccomandava la femmina dalla bianca pelle, piuttosto amami, guardami, carezzami, vinto, assumi un altro fuoco, rubalo ai vinti. Agguantalo furtivo, scippalo mentre dorme: io sono dea come il desiderio si affolla nella mente e assembra nell’amore, se non concedo di violarmi, se ti sorrido magica e feconda, se quello che contengo vuoi. Ora tu libero ti senti, sei solo morto, muto, ammalorato, spento come il capretto che hai ammazzato: tu sei il sacrificio di te stesso alla regina morte, che anticipa il percorso e stringe il giro: vieni da me prima di guardare se si spegne, io lo conosco, quel maiale; mi scopa quando vuole, mi raggiunge. Io l posso condurre qua, condurre qua quando non vuole, quando tace lontano, quando languisce: divora quella mela, abbi fiducia: prendi il nero sotto i denti, senti come è croccante e amaro. Ti offro la delizia del mio frutto e prestami il seme che tu comunque dissidi. Io ne farò un soldato guerriero, forse più d’uno. Era vergine il viso, era delicato ogni segno d’amore, dubbio il sorriso. Tutto mi disse, tutto mi attraeva e malleava il cuore, e lo stato vergine volevo prolungare, lo stato delicato, senza fermenti, prima che il nuovo destino mi pigliasse e prolungasse assai ed incendiasse prima che il mondo cominciasse. Prima di ricominciare. Prima che propaghi il fuoco, il nero e rosa lume della stella che riluce prima dell’alba, prima di sapere quello che vali, prima di tacere, prima del vento, chi sei stato?
Bugiarde lingue non mi hai dato il destino ma un secco connubio, seme secco furtivo, notturno, sorvolo sopra il morto centro, sopra la roccia acuta, il rosso vento. Mi hai ingannato, stanca natura, il destino non c’era sotto la molle buccia / volevo solo vivere: la buccia non conteneva il destino, ma potrebbe macerare solo la virulenza litigiosa, l’espansione della nostra stirpe, solo la volontà di vivere quel destino sfocato offerto in grazia / misera me che rifuggo ogni sospetto. L’uomo cerca destino nell’amore, ma il destino dell’uomo non esiste. Non muove scopo maggiore della vita e ha pagato così come tu fai, dondolando su un filo, ancora cercando e bevendo il bianco seno, cercando il maggiore offuscato nel minimo per esistere senza lei, fuori dal cerchio di vicende. Sempre le stesse, già recitate: questo il peccato, essere di più, essere altro e così nell’inganno turbinare fra le due donne, quella dell’oblio e quella della conquista. Figlio di due donne, figlio del frutto e figlio del rifiuto, la sentenza rifugge, sorvolando accarezza i pensieri e vuole ritornare al perno ottuso, che macchia la scelta, là dove era nato sulla foglia leggera, dalla goccia vorace. Scorri su seni incisi delle vergini, raccogli nel seno della rigida trama della foglia, lì scorri e raduna, goccia, dove è nato il mondo e l’universo. Sulla pendice infranta, l’ultima bugia ed i cavalli neri della morte stringere alla briglia e vedere il punto dove la scritta è stata come un opaco senso, il punto dove il pianeta rigurgita la terra come un fumo (il punto della scena scorrevole, la goccia originale degli antenati), la costola della foglia che dirige la goccia. La goccia divora gocce sulla costola rigida della foglia.
La luce ricuce lo strappo e intreccia le cose mentre sbiadisce linea a linea dietro cui il mare ruggisce. Colossale sono all’Oriente del tutto le vivaci stelle travalicano il monte. L’alba ritesse le cose fra i canti, la luce trascende stretta e vorticosa tempestando il pianeta mentre i galli possiedono la foresta all’origine dei venti come il vento si offusca e così è all’origine, a ridosso. Una balla di vento si profila nascosta la stregata luna e il lento sole assopito di nubi. Sappiamo delle cose, i 20 strati della luna e il nostro ottuso. Così l’alba si trattiene, forse non si assorbe, ma la luna viene, forse si pente, divora i venti, si incammina altrove come un sospetto. La stella resta fra le nubi che respinge così si ripiega al mare, la circonda e la annulla mentre la luce si soffonde da ogni direzione e poi ricopre il vento. La luce trionfa larga e poi lo sveglia deposta, e poi l’alba trasluce di un diffuso colore per ogni dove progressiva. Il dolce azzurro non ha luogo. Da che lato si scuote il morto sole? Più luce si inoltra ad Occidente, al nord dove non credo la terra giri e a capogiro la dea inginocchiata giocando porta la felicità, porta la vita. Non ha inganno se non di femmina infantile; in ginocchio ridendo si innamora. Mentre contengo traccia la vita, il mare, umida porta l’aria, ora a tratti sveglia le raganelle, le nubi sbocciano rosa e tutte insieme, i galli, l’usignolo, tutti insieme, quando colora di giallo la foresta. Foglie spinose, scimmie si muovono al contorno, archi di palme disorientate, messaggi d’uccelli e il primo volo. Finalmente l’odore sale dalla terra, il suono gorgogliando intermittente impallidisce la marmaglia di nubi, alza il suo suono come un leone il mare: ogni cosa devi cogliere colla parola, principe, perché la marmaglia la rispetti, ogni cosa tocchi e ritocchi e insegna a cogliere ogni segno dalle cose e dille ad una ad una per trattenere, prima della regola e della legge. Allora i concetti sono cose e le cose concetti. Questo diventa la più alta morale. Bruna montagna a coste.
La tamerice cariata rilascia frutti di Archimede.

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