Ombra alla galassia
Della curva galassia segno sul bianco furore la mia ombra, e gli spruzzi e le lingue di fiamma generano un suono continuo, ed un frastuono opaco sbatte e si solleva il fronte candido e lucente, e ribatte e scuote l’universo uno schiocco: schiocca e scuote ed il sasso si scaglia. L’altra onda rincalza e brucia, rotola il sasso, lo arrotonda nel lento tempo che ci sovrasta e ci avvolge e si ritira levigando colline della rena. Così di respiro in respiro, avanzando genera fate istantanee lungo il frangente della roccia, altre fate danzando dal drappo bianco, dal trinato velo, dalla vita effimera, dal breve respiro, dal gioco forsennato e ossessivo. Le mie minute orme di bambino sono nulla contro il gigante che le liscia. Parlami dell’onda, gigante quando la superi, come rifluisce. Se, vedi, alta la trasparenza verde quando protende, come il picadero e lo scorpione, sei bella prima che ti violenti. Un colpo batte isolato, bagna il legno, lo borda come la neve. Di un liscio letto come una conchiglia, come la neve che si scioglie e rigela; la carezza arcuata del riflusso leggero e frusciante riordinando minuscole strisce in fasci, minuscole ombre d’archi striscio alla luce e buchi sulla liscia ombra che carezza la leggera e riscalda. Oh, mia galassia rifugio di popolazioni, quando colliderà sui percorsi di luce, archi lisciati e contrastanti, quando si sovrappongono le memorie in tracce ferme, i residui stagliati a una luce violenta, i rimasugli sporchi che come mosche succhiamo. Fata Medusa, che non ha spazio per contenere i suoi nomi, perché mille ne hanno dati le sue innumerevoli popolazioni, come si formano tracce di canarino sulla sabbia, annidati in una piccola ombra viviamo solitari, senza che si senta rumore troppo lontano per l’orecchio, e inonda e ronza smangiato e scucito il suono continuo e in un’onda sta più che nostra vita, avida e irregolare dentro quel suono, nel mezzo della vibrazione di una nota, in quella valle a cime lisce di silenzio, in quel mezzo respiro l’inspirazione senti l’emissione chiudi la nostra vita ondulante, quella liscia discesa sul respiro dell’onda. Schiaffi, oltraggi e fragori non riceve del violento rimescolare vorticoso, ma s’alza un demone bianco più vicino e fruscia e spruzza facendo che il blu scuro e l’infrarosso s’avvicinassero a me piegassero nel lucido declino la mia ombra vuota. Quel grande spazio è tuo, debole principe. Sì, da lì apprendi la vera misura delle cose del regno e la pietra angolare e la cicogna che nel becco pesa. All’angolo del trono guardando a 45 gradi è l’universo, così mi alzai e mossi in diagonale a brevi passi, a testa china, e lì raggiunsi l’universo stellato sul cielo blu di lapislazzulo e ametista. Vidi lo scrigno di riverberi della luce che entra dalla fessura e spiai l’immenso mio tesoro che proseguiva nel buio più profondo dove anche il bagliore si perde, perso. Mio imperatore, disse, ti rattristi. Non ero io per triste e per mistero, non ero io schiavo di Medusa? Non ero io punto dalla scrofa? Brutto maiale che mi cercava e serpe dai fittizi diademi sulla pelle, o il bacio della fata che il suo uovo poneva come vespa nel corpo di un umano? Ed io, morto e vivo, generavo i suoi figli? Venga la luce, venga il lisciato manto a farmi svenire e avvolgere e rapire e l’aria ad abbracciarmi, l’aria tenue che permea le schiume e ci ridà respiro. Sia più audace il mio viso sulle ferme onde, quello è il destino che prorompe e gioca. Quella è la sanguinaria solitudine di sangue bianco, di aver fatto come un manto scosceso, un gioco veloce di blu e di bianco, un gioco rigoroso che ha l’umidore forte, porta il sentore, spira da esso ora che lo inverte il sole. Alza alto il destino, protrai le generazioni di speranza. Muovi le cose, raccogli ciascuna e alla nube che offusca non pesare, ogni cosa sia il tutto e non di meno: ogni cosa riposi un attimo e sospenda, ogni cosa sulla nostra voragine stellare, ogni cosa sia il vento, ogni coscienza abbia un cuore e un nocciolo dove si avvinghia il confine e si contorce, si ripiega la luce nella sua spirale e si avvinghia la luce nella sua spirale.
La terra rubò il fuoco e decise di staccarsi e morire. Allora il vento seguì l’uccello e imparò a volteggiare sui profili morbidi e le conche. Per la notte il pescatore trovò giaciglio in quella fossa piena di lumache dove non custodisce i suoi sogni, dove custodisce il vento i suoi riposi. La farfalla dalla lingua a spirale si spaventò e sbatté, disordinata fuga, e srotolò la spirale della galassia, e dimmi chi era vivo in questo moto, in questa stasi? Chi era nel suo destino, chi lo disturbò? Dimmi se ero vivo, se sarò vivo, se prima di nascere ero vivo. Prima di sapere e non sapendo. Poco sapendo. Mentre la galassia si dipana e svolge. Se nel filo non so dei pensieri trovare il pendaglio che non chiude fuori dalle deduzioni e le premesse e le sequenze circolari di effetti e cause nel globulo denso e chiuso, dove vola la rondine intorno al nido per quanto si allontani, così la curva non dà pace e dritto e diretto, non come la luce che si avvolge in un guscio chiuso e traccia un uovo e rallenta là nella periferia sul bianco involucro; ma più diritto come il pensiero può fare, come la dignità del re, come la regola della misura posta ferma sulla teca angolare. Così presto le rondini si aggirano come la luce cerca un centro e ritorna ricadendo più rossa dalle stelle. Adagio, come la luce nella spirale di chiocciola, altro non vedo qui nella caverna che queste conchiglie ad aspettare il cielo.
Solitario cane, che i suoi denti si strugge mordendo il vuoto vento, ascolto da lontano i miei passi che scendono alla spiaggia. Non un limite puoi darmi che non sia / oggetto; ma regola / di me sei la sequenza, la vergogna. Il colloquio appartato in grande spazio, sei l’aggancio, sei la sicura / muta è ogni cosa che non sbucci in cerca del tesoro / muta la guerra nel frastuono. Se dentro non vi scopro la galassia, misura del mio regno, che mi è servito? Il lattice primordiale succhiando, il latte che ne spolpa. Al vago sforzo di abbeverarmi ai seni della dea, succhiando ed aspirando il vuoto, il vago istinto che cerca e insemina, sperma muto del mondo. Concentrata galassia, immergiti nell’acqua e nella vasta morte trovando le reti della luce e nuvole di sabbia sul suo fondo, e ho lavato i sospetti e le minacce dai segni torturati dei cammini. Dura dea che ti concedi distante, che non conosci il divenire, cerco la vita nella dura dea, come fa la mosca che neonata si avvicina e ronza per bere / spiando dai suoi occhi lo sconfinato prima e l’immenso e violento turbine schiumoso / del dopo – / Così riarde il mio amore spuntando da ogni cosa profumato, opposto al nuovo nato che il passato contiene, ma il futuro non c’è. Nella gabbia del tempo, del lucido tuo scrigno, re / sia tu racchiuso nel tuo trono come diamante / sia tu la pietra decorata / sia tu nel tuo tesoro / dura dea meschina / che delle vite prendi solo la fecondità. Incorona di fiori il ventre molle intorno all’ombelico e guarda oltre il confine, e per lì sconfina nel regno di nessuno.
Per metà del tempo vedi la galassia fiorire. Ho imparato dal tempo quello che segue dalle cose. Quello che non mi aspetto pongo sulla bambagia e lo guardo come fosse un sole, e dentro cerco il destino dai molti passi, dai venti volti di uomo, di donna, di vecchio, di neonato, di giovane, di anziano, di stupido, di ricco, di modesto, di stanco, di muto, di dormiente, e così anche volto di dea, anche di tigre affamata – Ultimi mostri con cui conviviamo, ora e nel futuro spariranno dalla terra nostra. Come cercando un volto che non c’è, che non nasce o non ritorna, rovisto nella spazzatura, come un cane randagio, chi è di tutto ciò l’imperatore, che fa regole ferree, che non possa esistere altro che l’uomo. E sopprimere la bestia che gli ruba il cibo, e l’uccello che gli sporca la strada, e la formica che infila briciole nei buchi, la cicala e i grilli che di giorno e di notte sono ossessionate dal chiamarsi, e così tutti i vaganti animali, già ora un poco persi, che erano selvaggi ed ora morti, sono schiavi e imprigionati. Chi regge questo, quale re imprudente? Questo è il mio nemico, e spero mi aiutiate. Quale è il dittatore che non sopporta l’elefante e molto meno? Chi è il dittatore che non sopporta il popolo e molto meno? Che ama nel timore il deserto intorno e la coltura vasta, che sfama col trattore migliaia di schiavi – Cavallette che il cibo diventano animali impedendo la vita. Dalla tortura si salva chi non ha gusto e così la specie muore. Ma mediante i subdoli servi, che è il peggio, sparge di proposito veleni che indebolisce e rimpicciolisce ogni alternativo predatore. Così un solo mangia il creato, ma nessuno deve anche mangiare ciò che cresce così sano e robusto, solo il grano ed il riso bagnato ed il granturco e le patate e qualche verdura. Tocca il DNA dei suoi viventi che siano obbedienti frutti e servi frutti deformati e infecondi in lunghe file e non c’è per essi primavera che deborda di fiori, non c’è scuro intrico di mille foglie e bruchi e farfalle ad alti steli e magiche fronde e secchi alberi da cui penzolano alterne nottole dal vermiglio petto. Il rosmarino ed il pepe non conoscono più libertà ed il caffè si estende per bevanda e il the, anche la coca e il papavero di nascosto per farne i sudditi ubriachi, per non dire le vigne allineate che sembrano libera verzura. Non un mirtillo e fragolina dobbiamo più liberamente cercare od il fungo che spunta. Di questo è fatto il regno dell’imperatore nemico, così troppi schiavi mantiene troppi soldati e dà a ciascuno oro per la guerra, così spreme la terra dall’acqua e dal petrolio e risucchia il metano per bruciare e invertire il caldo e il freddo. Così troppi schiavi e sudditi e ovazioni diffuse di consenso ma non vuole limitare i popoli che possono mangiare poco o troppo e proliferano all’eccesso: così si ricopre la terra delle cavallette sciamanti, senza che si voglia maggiore qualità e forza. Così ciascuno obbietterebbe, avrebbe un suo pensiero. Quei vili servi che godono del premio che il danaro accaparrano perché ne cresca altro e possedendo la moneta, belle banconote, coltivino il fiorire e vedano il valore istantaneo che illude e ad un altro passarlo, avido lui stesso. Così quella carta si dissemina per la felicità del dittatore e la vivacità dei molti con cui si comprano tutti i benefici. Finché vale il valore che alimenta quel re feroce e astuto, finché disseminazione di promesse abbia collasso e nessuno ne veda più il valore. Così vi prego di guardare il valore di lui che governa: non è vero che per tutti c’è ricchezza, cercare altre promesse a mossa del futuro.
La morte gli scivolò dentro per anticipare le sue intenzioni. Ma tu, femmina alata, che volando hai risvegliato il mare, la trattieni e ipotizzi a quel fragore. Ora tu dormi / e in sogno mi accompagni mentre, camminando per la luce, le onde si sorpassano ed accendono. Non so più in là, ancora io non so dove si rompa, dove corra, traversa la sua crina. Sono sempre sul bordo della sfera, ovunque sulla superficie. Ma il cane mi rivide sulla spiaggia, si accostò, si appoggiò, leccò la mano, ma guardava, riguardava, penetrando l’arco contano scegliendo la mia ombra ma scrutando / se persona fosse avvolta nel fragore, fosse presa o volesse partire, trattenendo e ringhiando per la morte che il dietro vedeva. Oh! Stupido animale, lui pensava, questa terra è la tua: abita i tuoi momenti! Li racchiuda il vento. Chi cerchi nella schiuma quando batte e poi ti stendi e ti riposi e ti alzi d’improvviso. Raggiungono il tuo piccolo destino / lasciando me in bilico alla vita per la mia solitaria altra avventura. Ma tu fra i gigli, i profumati sospiri, correndo con il cane che precede, capriolo di mare, tu mi sconsigli. Così stai immersa per metà nell’orizzonte, tagliata linea dalla linea, scuro profilo di altra terra. Disperata foglia. Orizzonte scosceso e distorto, rotto là in un punto.
L’orizzonte si slabbra e si spacca / il sole non conosce ancora senso e si sbanda / ed incontro per la scia dei gigli la fredda aria vagare / s’alza la lista bianca variegata e arrogante. Copri sul ciglio nel cerchio delle pietre che difende dove si insinua / cercando il tepore fragoroso e per esso cammino, estraneo alla speranza che accarezza, nascosto sotto ciò che è stato, fermo nel futuro – / Così senza una tregua, magro e senza frutto / come avvoltoi depongono le uova e stanno al ciglio, mangiamo quella luce morta come una carogna, mangiamo dalle stelle l’impossibile feto come l’acqua cerca esplorandola / come l’acqua cerca ed esplora sulla liscia spiaggia e non è morta ed il sasso aggira o talvolta schiaffeggia per il mio spavento, tenta ma torna. Gorgogliando: così, tentando / miei compagni / così come il respiro, come il respiro ritentando i millenni si generano dall’onda, e sono pronto! Aspetto che il futuro mi venga agevolato, sul cammino che qualche dimenticata divinità mi parli, oltre la schiera, oppure venga l’essere evoluto a farmi suo bambino. Era forse seduto sull’altura, era sul sasso, era nella pietra, era nel rogo che consuma il bosco – / Dov’è una decisione nei miei passi, un digresso, un angolo, una forma mutata, un arnese, uno acuto e uno rotondo che la vita rinnova una parola che muti il senso e così ritentando come l’onda il futuro raggiunga qua la terra. Nel cuore del precipizio travolgendo i segni e i desideri, come corda si tende e la scintilla, per tenere la nave, che la strappa il vento, conosco lo spessore delle cose se restano mute. In esse si ritende e si ristrappa, per la tragica ricerca. E nell’aria l’aperto, vasto vento si raffina e contiene la linea tesa nel suo flusso. E per essa, così per essa, costruisce la misura, si gonfia e si ritende la materia. Siamo esseri semplici ancora all’alba, abbiamo fatto arnesi adatti per la terra / non per il cielo. Così disse al cielo, siamo ancora evoluti poco più dei cani / ma abbiamo sospettato la coscienza / seppure non sappiamo come studiarla. Abbiamo una filosofia magra e complessa, pleonastica e azzardata, una scienza lenta, eravamo affamati fino a poco. Ora dobbiamo decidere che fare, se i metodi son giusti, come cooperare la fine della bilancia su due pesi. Tutto era lì, sembrava permanente, ma fu tagliato e distrutto: meglio per libero sentire, meglio dimenticare qualche cosa o non sapere, benché si sia con tutto il trascorso di antenati. Adesso spingere oltre l’equilibrio fra due scelte, oltre il tribunale terreno che decide / il giudizio popolare, la verità che si media, il sogno che si consolida e appare pieno e vero; oltre il dialogo fitto, la legge, le tribune, le verità mostrate, in sé evidenti, guarda, ti dice, con mille piccoli diavoli e frantumati dei. Ecco la garanzia, che sia contrasto e sentenza! La garanzia è soltanto il pensiero del saggio – Santo, non dico – Di chi abbia scopo sufficiente. “Sono io lecitato? Lo faccio per soldi, lo faccio per potere? – Si chiesero il principe ed il re – / Si chiese e si richiese e si racchiuse. Era l’alba furente e il fuoco già bruciava sulle vene. Vento che aggiungi l’onda all’onda, acqua che lo spruzzo adagi sulla terra e manchi nell’aria. Come fiamma / scivolo trasversale fra le masse primarie essendo non solo esistenza ma vita. Rotto insulta la roccia e accondiscende, il mare saturo di anse e di preghiere. Per questa presa stretta l’involucro, magro e supino, delle luci danzanti, si gravida e compiace alla luna che cala nella notte.
Il veleno curò con altro veleno, così il vento che si alzava come il cobra o come l’onda, si abbassò su di lui e ne morse il cordone della vita; ma altra forma sgorgava intorno, da polle acquitrinose. Era nato e non nato, ma si piegava il corpo, una stoffa meschina che sta intorno e così vidi il mare che si spegne e libera la rotta. E le mie gambe e i miei piedi hanno portato il mio sguardo a vedere il piccolo fiore flesso ed altro dietro, mutando e divenendo nel suo viaggio la mente. Dubitava nel bosco e i prati radi: l’eco mi suonò diverso tintinnando più acuto. Il rischio del percorso era ignoto, fra tortore e colombe, nell’incanto del canto che scendeva parallelo dalle valli, canto fluido e morto come l’onda, imprigionato qui nei mille oggetti: tutto rinasce per rinnovare / il candore e la pagina promessa. Campo di luce / non sono annoiato delle specie. Questo mi serve per bagaglio ancora. Ora i veleni rappresi si contrastano e sopra sto considerando le guerre che qui ci hanno tenuto, le complesse guerre vinte dagli antenati, stando mezzo morto per inganno, ma qui nascendo con il nostro passato, nascosto nel profumo del cespuglio arso, come il nuovo animale / così / tanto più alto, così tanto stretto, nuovo animale che alla macchia si prepara, partigiano, e allo scoperto, presto, giù per il monte bruciato agli usignoli, rubando il fischio allegramente, discendendo verso il pregio del mare che troneggia. Che sei tu plaga di vipere all’ombra del dirupo? Scomodo sedile. Così netto canta: che questa terra sia il giardino, il paradiso, benché piccolo e stretto altro non appare / e, intanto, costruendo il vascello, di qui, dove abitavano in progenie / ascoltando il ripetuto tonfo del mare, ascoltando e riascoltando se nell’eterno là ci fosse spazio, se noi, loro figli, avessimo la grazia di ascoltarli. Tanto hanno aspettato le loro intenzioni, per migliaia di crepiti del mare hanno resistito con urla e con guerre, venerando l’avvenire che con piccoli, approvando il modo e i modi con la giusta ricompensa all’animale richiedendo perdono ad ogni dio della ferita e del possesso. Tutto ha mangiato poi suo figlio, come le cavallette e i roditori, senza chiedere ai tempi precedenti che guardano e che sanno, e l’uomo scende dalla boscaglia e arriva al mare dove si spegne l’onda, dove si immerse il dio lacustre, mosso per altro regno. Immerso nell’opaco, come l’occhio del capriolo che si scuoia. Esso richiede sacrifici ed è divino e non è cosa chi possiede coscienza, guarda e sente, nostro affine.
Cosa indebolisce la notte e il cielo fa più chiaro? Nella sabbia il cinghiale si arrovella, sceso di mattina era ancora sogno a transitare per le membra, era già vita? Era già vita incerta, era il chiarore dello spruzzo che gorgoglia, era la prima luce che colora l’uguale schiaffo che la notte cercava e si aggirava fra pietroni riscaldava i piedi quando ancora la luce è fredda. Attento a quella luce sopra il sogno, che emerge dalle vicende effimere della notte. Ancora più presto, più di me pescosa. Suscitando i momenti come onde stava in esso il primo vento cercando. E quale dio rovistava fra le rocce del mondo sconosciuto, o l’animale, gravida lucertola o coniglio, stava a margine fragile, alle strisce rovistando e cercando dove sorge l’ombra / e l’animale nuovo, suo malgrado non possiede e non sa, non scende dall’istinto, non cammina per la guerra ed il cibo: quel giallo opposto al sole, quella maniglia, guarda di lì, quando fugge l’alba, da parte opposta alla dea diafana della notte che, con volatile vestito, di là fugge, veste fatta del chiarore delle stelle, spero nel sole atteso, che mi scaldi nudo scendendo dalla collina. Benedetto sia il giorno che riviene e cancella il sogno dove ero sepolto. Cerco un istinto, su questa terra fervida, che nella curva convessa mi abbraccia, terra sottile e tempestosa, sole che accende l’onda bianca quando si arriccia, sole che riviene: ridammi peso, tiepido giorno. Fuori dalla luce di velluto ferma nel cielo. Chiare come braccia della fata, che conserva il tepore e fra i suoi seni, e così finalmente scaldandomi nel sole / seppi il nuovo istinto, risolsi l’attesa, ebbi la luce di fronte e dietro alle mie spalle / e il sasso segue il sasso e si raduna muto / e si immerse dove l’onda risucchia nella sua ombra scura.
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