Il sole scisso
Nello specchio notturno, vidi le vere sembianze assenti, l’immagine, l’essere vero originario che non abitava il pianeta. Con le mani alzate il re spezzò il sole per cercare, e ne scaturì un’ombra vasta, che scese fino al limite del nare: la sabbia emetteva il calore notturno alla battigia, il mare fermo, che di più non poteva, il vento lo ondulò per primo – al primo raggio, sparì lo specchio delle immagini miste,– La lunetta della luna divisa ripartiva il lato luminoso ed il suo specchio scuro, allineata:
Il re, di pensieri divisi, lasciò la terra per quell’acqua e il vento ne giocava e s’immerse nel mare terso e muto. Il sole scisso scivolò nell’acqua di curve e di losanghe, si riflesse sul fondo, tutto si schiariva e così si mosse alle caverne che non hanno spiaggia, le caverne profonde, e a quelle spiagge dove saltano pesci a riva sulle piccole onde fra lucidi risvolti e dolci suoni
Sono uscito dalla notte umida e oscura – mi diceva – Pilù, Pilù, intanto chiamava – Il re sapeva d’essere e d’essere quanto non sempre il sole, quanto non le vespe, che pur amano i detriti – Pilù, René, Mocà – René, Pilù, Makò – Cammino lontano su queste sponde e rive al seminarsi di parole.
Sono la figura di uno che contava – Nel giudizio sulle cose il vento passa, le scolora; l’interesse si accende a salti. Quel tempio era costruito nella nebbia, era trasparente dai tralicci – Trasparente quando riviene il sole – La donna non aveva che assenza nel suo petto – Il precipizio era là intorno, vuoto, e il mare si spegneva. Oh! Torno nell’acqua che mi regge in un brivido. Oh! Ritorno nel suono che stagna avanzando sospeso senza avanzare, come il cavallo che galoppa sul punto, nello stesso punto del moto – Cavallo di Lumiére, se chiudi gli occhi puoi sentire, quando avanzo e quando no – Come il pianeta, e non sai d’essere quanto il cavallo è, che corre. E ti fermi nell’essere, seduto, inanimato, forse senz’anima; processo di seppellire immagini come nella sabbia, come nelle caverne i moti vennero alterni, aritmica l’onda. Il pensiero nuotava nel castello, avanzava un po’, un po’ stagnava. Non c’era vento quando si sdraiava. E dissi, Ehi tu, che dalle civiltà sepolte e morte, porti i numeri, i segni di colori misteriosi, e porti i segni sul corpo come percorsi fitti di formiche, che hai fatto guerre per donne di lignaggio, che moderano i gesti, si piegano solo al fuoco del braciere e al frutto per morderlo una volta – Dimmi qual è il gusto che contiene il frutto. Persa la donna, solitario dipano i segni e cardo il cane mi si appiccica e si stende – Il est pas le mien. Chi ha visto mai di roteare il fuso? Che precede sull’asse, come tutto il pianeta, come le affollate stelle ferme nel moto. Come più alto vortice, possibile vita; vieni qui a staccare, prendere il frutto, a guarnirlo della veste, e i denti o il becco battere a richiamo, prendere i grani e il grappolo – Esplorare colle orecchie rivolte tutto il reale. E suoni e persone che corrono sul mare. E le lontane barche che non vedono i fiori. Minute cose prendo e prendo ancora – Quella gente densa, il contesto e il contenzioso – Nella densa legge, lì si sviluppa o negli alti archivi i silenzi reverenti dello studioso o nelle guerre, lì ha avuto forza il simbolo ed i segni e l’identità lì presso al re, seduto presso al re dove non risuonano che musiche divine, parti di Dio stesso accettano gli onori e lì risiedono ospitati. Di questo dobbiamo riparlare a lungo per aumentare la concordanza, non diminuirla a soccombenza – Là presso il re si svela come gestire la pace, come discernere parole divine, offrendogli la coppa. Lassù o laggiù dove solo è rimasto il re a contrastare sé stesso, salva la misura ma fai che collimi con le altre, fai che si stenda. La donna e Dio su un ampio coacervo di cuscini – Abbia piacere il dio venuto dalle stelle a sapere la storia nostra e dell’uomo; quando ancora vogliamo, quando ci siamo accorti, non sapendo vediamo, non c’è altro da prendere con te – Il mio dolore vedo tutto intero, come di colui che è privo e ne è assente. E discendere per chiostri, per patii e per radure. Sardanapalo, il vecchio suo blasone! Orribili suoni, orribili dolori – Invita il dio che scende, timoroso e ignaro – Il dio asciutto e muto di tutte le sue cose – Invitalo per brindare a questa mensa, non per pregarlo di cambiare il nostro mondo – E quel dio sta a banchetto e carezze e sorrisi. Il dio non va venerato; ma ben rifocillato di bevande – Tiene gli occhi chiusi per pensare – È inaudito, è ferito, viene da lontano – L’ho invitato a banchetto sulla spiaggia.
Per le parole dipanate e sciolte che si slacciano e allargano come fa corda nell’acqua che fluttua e muove toccando quelle corde stendendosi al suono, come galassia che si apre o rana / o nuotatore muove gambe e braccia, a galleggiare, altrettanto fu sospeso che la luna, che gli astri – Amore / era per lei disceso nelle cose, in un intimo abbraccio, nel connubio, perso nel fulgore dell’atto originario, vicino al fuoco, più che all’acqua. Il vento che da terra rovistando viene per la mattina, però il mare lieve e leggero s’appoggia come una foglia a terra. Rimase nell’attesa del frutto, fra carezze. Quando è lieve il tepore, quando il proscenio tace, mostrando liquide le cose. Quando risale a chi non sa vedere questo o quello: tornare – Tornare, tornare, ancora ritornare. Da qui devi sparire: lasciare ad alghe vecchie, putredine, impronte di gabbiano, lasciare mute e insoddisfatte le cose – Lasciare nella loro attesa o togliere l’attesa per ogni tempo immisurato. Cadenza senza grumi, cose senza spigoli e non rotonde. Perfetta rotondità. Spetta agli dei, nelle gocce fusi che hanno fatto crosta, gialla lava che una stella contiene – Dissipa nell’universo il suo calore e qui stiamo fecondi – Lasciamo qui le cose meno compatte – Lasciamo il paradiso coi suoi cespi – Parli, chiedi, accompagni – Ma io non sono qui: sono rapito / nel futuro remoto dove tintinnano canne giapponesi – Perché sei e non fai? Perché fai e non sai d’essere? Guarire dal mondo non è banale – Quando al proscenio vuoto si ammanta il sole bagna le alghe e dal fondo risale avvitandosi ai fili, al modo destrorso, come destrorso come da sua natura – Le piccole caverne decisero di parlare. Chi sei tu che provieni dal mare, estraneo ai nostri scopi? Decisero di dire – Chi sei tu? Allora decisero di cantare: il canto che il tranquillo mare insegna e toglie / così mirando, chi mirando sale. Assente allo scenario, come può essere assente una cosa vista e guardata – Cantino quelle rocce il canto perso – Senza chi dice o spiega – L’assenza è un moto con due facce – Non può essere uno soltanto assente – Ho sovrapposto le carezze alle carezze, come fanno i pittori. Per capire tutto di amore impermeabile scegli questo e quello – Non sono i loro scopi – Qui a scena aperta, nel solo silenzio, ti immergo sospeso nella tinta che non è in nessun luogo, retto e sospeso c’è un vuoto, c’è un pieno? Due cose sono lontane e senza morte e la morte è in entrambe. Saranno allora vuote le caverne, parleranno al vento – Se le cose continuano, sono più potenti – Finché esistiamo non siamo due cose – Dentro gli esseri continuano a rovistare e stanare i loro canti brulicanti di scarabei, sotto il quadro dipinto – La notte è stata terribile: sotto gli stracci del pensiero. (Sera) Dalla nostra casa il vento passante, aperta – Invita il dio al banchetto del connubio, quando con mosse armoniose la natura danza – Ho visto, ho vissuto! – Allora dei consigli il più misero, il più stolto. Allora prende al volo, per cominciare. Non possiamo certo aspettare il destino, col rischio che non passi: lascia a loro, vaglino indistinti, ben felici di scorrazzare invano.
E più di mirto gli odori, e più sospira, sale anche la vinaccia dai rigogli – E quello che non guardi scompare, tutti i quadri, i disegni insegnano dove proseguire sui muri calibrati, il lungo corridoio da cui provengono i suoni; e ti chiamano le badanti e le nutrici – Anche solo dalla forma, dai disegni, impari e imiti le forme, fossero arcigne e strane – Basta un segno diverso, basta che qualcuno tenti di dire – E giù il vento porta l’aria di cinghiale. E profumo di lavanda; prendo quello che porta l’umidore e ciascuno di quei piccoli e sforati che spetalano nel dipinto – Proprio quella mattina si rivalse, spinto a volare sopra i segni comuni; altri fiori piegano i profumi verso il basso, dove sono forse. Nessuno è puro e i loro nomi e i profumi si mischiano, all’Olimpo oggi è giorno fortunato di caccia, il sole non mi brucia – E la pioggia, ma ogni goccia con i vari nomi – Rude, meschina, torta, piccola, pungente, fuggente – L’odore degli uomini si rialza agliaceo come la fatica, e lascia la scia – Una è già schiacciata, una è morta – Una si chiama brilla, una foresta, l’altra s’accoppia – Fiuta dalle ringhiere spinate di qua il cane, di là l’animale – Gli astri si mostrano infecondi e l’uomo, che teme il tuono, non sale più alto nell’Olimpo – E qui solo salendo, foderato di pelli e di misure con pezzetti del cosmo fanno scale e trasferiscono dall’una all’altra l’infinito fatto in granelli, in sabbia. Gli animali dipinti sulle nubi erano effigi dei terrestri – Non erano dei, pur sulle stelle giacendo, ma simulacri dell’uomo. Ma non erano dei, erano innocui, come invapori, erano fluidi come il mare che, impalpabili, accarezzi – Tu hai due colpi, noi ne abbiamo mille – Ma urge morte dal primo che sarà primo – Toccava le nubi, non le stelle, al freddo Olimpo. Non erano quelle, fisse stelle, a raccogliere il divino, spigolose, solo un dipinto sul cielo blu, quando il mare è profondo lungo le rocce. Gli dei erano nascosti fra le onde che parlano nella notte e tu le senti anche respirare. Gli dei sono vicini, sussurrano nella mente.
Nel respiro della notte scese profondo e trovò fate e streghe – Dove vai? Dimmi – Risorse e mille e mille, un coacervo di mille – A chi scende la notte quando scende? Spostati un poco: non puoi vedere di lì! / Muovi la testa a lato; stendi il corpo – La tua mente è di là. Chi ne è la misura? (mattina) La notte decanta al suo fondo dall’ibrido stato nelle nicchie e negli abissi, decanta ibrida la luce e chiama uomini lenti a piccoli rumori, a fruscii che non risveglino – Tutto si appoggia sul lieve e sul poco – Non canti preparano alla caccia, non canti, né alla pesca – Così volle che sapesse – Volle che misurando, un numero potesse definire – Potesse essere sceso, e sceso potesse estrarre dal mare il primo profumo di cigli immacolato, prima del mare, estrarre al mare liscio immacolato, estrarre al mare liscio immacolato primissimo fruscio; dei risvolti il risvolto, alla battigia torbida, scendendo al suo tepore – Alla battigia ibrida che misura il primo tempo, uomo che tutto misuri se non la notte, che si alza stellata e scoperta e porti lo scalpello, porti la lima ed il sasso acuto, come l’acqua nell’otre rotonda come un seno turgido a gravidare – Così partì scendendo – Portando carne secca, occhi di predatore, e un dono al primo sole; che possa sorgere e fecondare, che mi possa scaldare – Alla mia vita non ho dedicato che un tempo, ma era più vasta: questo appare da molti fatti. Che di là sconfina, che nella notte non è contenuta, appoggi l’onda a terra, arrendi l’arma, come donna si sdraia e s’appoggia, come il sole depone la luce sulle rocce, come tutto ripete, ma nel coniugarsi si sfodera, ciascuno rattratto nella propria natura, pietra che emerge di forma che nessuno distorce – Tutti che il sole ammette, io solo sono – Il sole che collima questo particolare alla vastità, natura strana che si denuda al cieco che la palpa. I frammenti non sono che vagiti, per ricomporsi in uno e la creta si aggiunge dove è persa allo smusso rotondo, creta che si reimpasta. Tu che hai lasciato gli avi a consumare le loro ossa senza uno sguardo, qui riguardi nella mancanza – Scoperchiata all’universo nella notte stava la terra – Sapeva e non sapeva e percorreva il cosmo. Ho visto sassi aperti inghiottire farfalle ed altri prodigi – Portando la vera religione all’universo – Tu Pigafetta, che assisti, e Magellano abile a tracciarne la potenza ma attento al vecchio capo che all’inganno non vuole appartenere, fu stritolato anch’esso come Laocoonte da spire di serpente. Chi ti regala un’idea spesso fa breccia, deglutisce il mostro il vecchio Laocoonte – Lo stupido Pigafetta, uomo superficiale, non vide la contaminazione, la proliferazione, non vide il dongo morto, la cattura del toro ascita, non capiva chi contaminava col suo sperma, e figli di figli avrebbero confuso le memorie, non sapendo se fare e se non fare; tu che guardavi, e l’orgoglio portato alla collina; tu che, tremulo il vento, la conoscenza di altro mondo vedevi e portavi la conoscenza da alti velieri / come fiore alto o agavi fiorite – Quel grande fiore bianco scorreva nel più grande stupore e meraviglia – Era un seme e un inganno – Erano doni e scambi. L’identico conservato nei libri della mente, il modo cui fossimo piegati – Dentro la meraviglia c’erano idee battagliere, c’erano ricatti, l’uno nell’altro come bamboline / e scelte, ed ognuna aveva un duplice corno. Ma perché questo o quello, che porta a scacco / nella regola predisposta, nel timore, libera scelta – Molte idee conteneva quel toro frigido, in quell’oro splendente, in dono quel metallo duro d’acciaio, il grigio ferro – Ma oro, oro! Diedi – E le mie donne, per fare inseminare da una pallida gente che ignora dei e non li rispetta, che prega e prende cose / e le rigira, le svuota – Tenne stretto suo figlio, quel bastardo, origine di guai che fu re prepotente – Quando venendo per inganno molte idee, le armi aprono ad altre che corrodono e interrompono come cascate, che non interrompe il flusso / aggira il sasso. Pigafetta che fai, che cosa vedi – Solo riposti perfetti e esempi – Credi sia innocuo? Quando finalmente la puzza del mare migra a loro / il veliero sentisti di maiali pur dal grande fiore – Non un profumo – Laocoonte. Dillo! – Era un odore rancido, inquietante. Sai cosa nella pancia conteneva? – L’algida donna, azzurra nel velo, conteneva tuo figlio. Fosti come l’angelo, a ingravidare / indurendo il suo frutto per insidia ad Israele / Gorgogliano intubate in una bacca stretta le acque scorrevoli, e tu che sei il dio, fecondo, vieni alle isole, ad una ad una, e lascia il seme nella donna dal capezzolo eretto e dal frutto doppio che il desiderio maturo alla ragazza / lascia a cono il maialino nero per il quadro di due secoli poi / fra le galline – Perché guardi, che guardi, ipnotizzato al mare, fermo e perso sulla sponda – E la morte non ti ha raggiunto quando condividevi? Ora non ti raggiunge, mentre vivi in questo strano cosmo? In questa isola racchiuso, discendente, figlio audaci, efficaci esplorazioni, che hanno spaccato il tempo che fluiva? La conoscenza hai ripollato, che serve alle dame dei ducati per far ghirlande di orchidee / e ai duchi per la caccia di fagiani ed altri uccelli dalle piume d’oro e creste di smeraldo – Molto è catturato, altro estinto, molto inutile, molto troppo diverso per acclimatare. Perché, Pigafetta, non conosci piuttosto dei vicini che si accucciano ordinati sotto i menhir? Il rospo lascia tracce, umili segni di zampette. Dopo la notte, con lievi conseguenze – L’attesa non è lunga a respirare; l’altro respiro dopo il primo. Umile è la traccia. Quante parti ha la notte sospirando? Segui e conta il suo lungo respiro – Non c’è nessuna parte di un’attesa che contenga più dell’altra.
Indis-so-cia-bilità da sé stesso, tutta intera, percepì il re, senza scampo. Ed il destino intero, se anche misto, serpeggiava solo come un’onda – Da lì si espande, prende corpo e misura, ma non lascia. Assume forme, ma non lascia. Ondeggia il fiume, alza la cresta dove il sasso o il tronco l’impedisce – Chi sei, quando sei? Che dovrei fare? Cavarmi la pelle / per uscire? Vorace vortice, che ci risucchi dentro, vortice che la nostra identità ci infligge – Immagine dell’universo al posto all’interno – Come un cieco, nell’ombra il cane a siesta disturba e inciampa, riceve un morso per memoria, così nell’universo ci muoviamo senza sapere – Sono salpato e non so più dove sono e non so più tornare. Così per scrivere la vita, tutta la erodo. E tutta la rimangio, come un flusso, come se non la spostassi e mi portasse a galleggiare –
E più ne mangio, inconsistente, meno ne erodo – Quello che faccio mi si avvinghia invece come la pece.
Torse la spalla e, con la spalla, il busto – Il profumo dei gigli della sabbia s’inclinava e muggiva il toro al sole che trascina nel giorno tutte le cose e le rilancia – Fu il primo sulla spiaggia ed io anche cantavo, gridavo nell’assenza l’ululo – Ero, ripetevo, ero, io sono, presso il toro, visto il toro nero e il sole acquattato, che affermavano d’essere. Io non per protervia, come loro, ma come io non chiamando altro, io sicuro che altri non ci fossero, alto strillai il grido. Io ero – Ero la terza cosa che appariva, salivo quelle fisse come il mare, quelli sottostanti e fisse, come la mosca che ti riconosce e si argina. Qui col morso di cane alla caviglia, qui come Achille, vulnerato spesso e denso lì come il mito, non il resto leggero, il resto essere, si sa, banale, ovvio, come gli altri, fatto di respiri e di attesa millenaria, solo la ferita divina era concreta; il cane disturbato sapeva del destino, lui era mosso da un dio, lui completava, faceva quel che non era ancora. Ma diede il marchio forte, marchio del morso. Il destino era questo, invece del salpare, era lo stato d’essere, era quando la giornata calda iniziava ed il sole faceva breccia sugli umani – Marchiò il destino, non la bugiarda Pizia – Era il marchio all’uomo, che il divino richiamava alla fonte: qualcuna deve avere causa la morte, se è sicura – E cercava a questa o a quella morte dare concreta vita, col marchio e la ferita, come il mare insistente – Dalla sabbia esce l’acqua più calda e filtra al mare – La morte avrà un modo, e lo saprà creare, ma il modo della morte scuce e risana e per dea siedi, la cui ombra ricopre passando allungata – Come al fremito segue l’azione dopo che l’attenzione l’ha guardato fisso – Dopo che dall’isola se ne va l’uomo, per la sua solitudine, scompaiono le sue invenzioni, e così le sue apparizioni. Ucciso dai suoi dei, se ne va l’uomo, ma essi stessi, che non ne prendevano che parti, se lo si concretizzarono in questa o quella parte, ne volevano la sostanza e ne davano sostanza – Ma trovarono solo carne putrefatta. I più antichi dei, i più fondamentali, rimasero solenni, a non sapere. Un ringhio grosso, come di grosso cane, gli dei che i suoi doni apprezzavano ed erano implorati, ma ammiccavano, non promettevano mai – Restituivano loro stessi i doni, senza criterio. Quelli saltarono con lui, preso per la caviglia, scivolarono il suo corpo verso il mare e ne fu riassorbito – Se qualcuno vedesse era subito tutto liscio nuovamente e onde bianche non si alzavano al sole e altre onde favolose, non venivano – Steso l’immenso spazio, teso fino alla tesa corda dell’orizzonte – Un altro, per sbaglio, mi diede un unghiata – Dovetti curarmi nel mare – L’inizio della morte, il suo bandolo acerbo, era per cane l’inferta unghia, poteva penetrare con i suoi bacilli prima del morso – Gli dei con trucchi volevano che fosse lasciata l’isola ai suoi buoi – Che non fosse guardata mentre consumava la sabbia, che non volesse, come donna che si spoglia, altro sguardo che amore e desiderio e non giudizio, altro profumo veniva ora dal mare – Quanto era bello essere quand’ero – Quando il mare s’arrendeva alla partita, quando il mare era stagno, vergine, occulto, quando visto di nascosto del suo essere vero, quando uno sguardo non era troppo e non sapeva. Così la terra continua disamata – Quando amore sosteneva tutte le cose, della felicità non parlano mai le storie. Quella che contiene ogni attento sguardo – Lasciare, adesso lasciare la terra sola, l’isola morta non esserci e non guardare – Così comincia a fendere il sole ogni più piccola cosa e a frantumare il vento in piccoli soffi, cosa propagando le piante si estendono e ricoprono, riempiono gli anfratti, sostenuti dall’acqua che vi scorre – Non ho potuto essere altro che questo, quel che vedo, e questo lascio – Lascio forse ad altri quello che è stato e quello che non è stato – Toccato dalla morte, così grave, che mi priva. Chi sei tu che venendo, sapendo essere trascinato, insisti assieme a me; e non lasci. Questa vita rimasta sa vivere non vanitosa di non essere guardata, come dea non muore – Quello che era nel mondo ho riportato e sepolto – Se avrà qualche scopritore, faccio grazia – Il ragno madre raccolse i piccoli in una palla prima della pioggia e li coperse, così lascio accucciata la grande bestia e scomparse in onde silenziose – Rimase solo l’ignoranza dei primissimi dei e non c’era più attenzione che seguisse e ingarbugliasse. S’immersero con lui gli dei leggeri, popolarono di meduse e di seppie fluttuanti. Che, pur se chiare, contengono del siero velenoso o fiele che dei mefitici dei nelle loro ultime morfogenesi – E compagni e meduse volarono con lui con pizzi e lunghi strascichi di veli, velenosi dei che devono stare a parte dall’umano, fra il sì e il non, altri di umori mefitici, di fiele, più discosti venendo e rarefatti: per la morfogenesi complessa partiva e lasciava solo cose riverse di nome smunto e corroso; etichette scollate e lavate. Questo, forse reperto a posteri, ma inosservato, la civiltà si dipana al lento mare, come lanugine; qui non osserva, qui non sa osservare, il ramarro e la biscia, solo mosche – Qui si guardano gli esseri, sguarniti, persistendo d’essere – Qui gli esseri discernono cautamente gli obblighi dal piacere – All’amore non si richiede un ampio territorio – Ma quando così sguarnito al meriggio e già soddisfatto, guarda, non dormendo, non aspettando sentimenti; ma anche cose neglette, che persistono alla ruga degli dei fondamentali, sono sparse ovunque. Sarà lasciato così, tutto il rimanente – Spero che anche tu voglia e possa. Ci sono spighe che si piegano. L’isola rimane indiscutibile e silenziosa – / Ma l’essere rimane e rigenera di nuovo molte forme, senza dei per ora e senza peccato.
Sole sottratto, soppresso e sospeso – Tempo sottratto al tempo, venerabile misura. Mi rendo conto che non conosco tempi sorgivi, conosco il salto della terra erosa; la folata del vento, il sole che ricambia il colore dal nido che lascia, non conosco esseri sorgivi, ma un precipizio di misure, quando il mare quando vede tace, un attimo al segno – Prima luce che affolla e scoppia quando invade – Più un cieco si sforza di vedere, più luce porta dentro, e più s’abbaglia – Per cercare, la luna mi abbaglia, per cercare il suo rostro. A chi sussurri le tue parole delicate e vane? Le cose non si sospendono ma, a cascata, s’innestano l’un l’altra, come parole, così forse dovremmo scendere nel nocciolo, nel liquido buio, sotto il metallo, non per sfuggire, sotto il limite inquieto. Vorrei tornare al vuoto originario, all’assenza cruciale, al delirio del sole che decide di rimuovere e svestire l’umidore. E così si sottrasse e andò a morire tuffandosi nel cuore dove era niente colla galassia luminosa e vasta, verso la nebbia contenendo miriadi di pianeti, accartocciando in un pugno vaste cose – E di voci diverse al divenire – Vieni al placido mare che ha sciolto i contorni e vasto e stretto brucia nella medusa azzurra, il cui sangue scompare, velenoso filamento dell’universo qui deposto volli di qui partire al colore di indaco e di pesca – Scendesti sulla spiaggia tutta correndo, a dirmi che era nuovo quel che ho fatto – Pregno di luci strane – Se non c’è ostacolo al precipizio, se la meta dell’essere è forata, lì nella nicchia buia dove rinasce e nell’umidore scorre al punto geliforme medusa, che porta il suo bagaglio – Perla socchiusa, e dune e sabbia e quanto il mare può portare e consumare.
Il caldo delle stelle era scottante, eppure il rarefatto, freddo peso, sostiene il tutto nel vuoto che separa – A noi non c’è vento favorevole – Combatte al limite del mare stendendo apparizioni bianche ritratte nello scuro, spingendo il suo odore contro il profumo dei gigli – / Al limite / rimango coi piedi in bilico restando / al limite delle deposte alghe rossastre, dammi la ferocia che rimbomba e accende al nuovo sole – In bilico sta l’uomo, camminando, privo e spogliato dall’ardore / quando fa rugga ed il timore incute: stai lontano, non osare – Sono al limite dell’essere ma il tuo peso – Cammina! Non deve stare allo striscio – Rivèlati! Demone occulto – Che fermi ed agiti le cose – Schiudi dall’uomo la faccia di ramarro – Dal guscio curvo e bianco, dal giallo dell’onda colpita dal sole, dal muschio umido e dorato, o distendi l’alba sui fiori – Capace d’essere se nell’isola solo restando con me – Se altri non vede – Mostrato a me prima della mia morte – Non in tempo per scrivere, così non mostrerò a nessuno – Vedo già squami di gusci rotti, il mare li mostra negli archi bianchi e mobili, dai margini inquieti – So che aggiri già sull’isola con passo pesante, leccando da questa miniera, alimento bestiale – Eppure fata, d’altro lato, canto nascosto – Non dirò nulla al cielo, non farò religioni – Sarò muto e fedele, dove stende il desco su alghe estirpate – Questo seppellirò sotto le cose, questa traccia sotto morbidi strati, alle spalle il mare s’offende e mi rapisce – Più ampio di qui un prodigio / e più acqua sbolli. Il limite non è che un vento acceso trovando le mie tracce sulla riva – Di continuo stormisce da lontano, in esso non si appoggiano cose, perché sprofondano – Chiedo sia esso a divorarmi, mostro possente che tiene la memoria delle cose – Mangiami mostro, sono preda! – E a qualcuno dopo il luccichio diffuso, dopo il vuoto intermedio, a qualcuno la domanda potrei porre – A qualcuno fidato, come il cane che lecca o mordicchia, o vuole il biscotto dalla sacca – Io, inferiore, ma potrò intuire – Spezzami il pensiero in quattro pezzi e la realtà reale, vista da altri? – Togliti tutte le squame, orribili a vedersi: rimani nudo verme – Io, per mia parte, abbasserò lo scritto, non cercherò un prodigio esuberante, non ti chiederò di solcare ed esser vivo, di venire portando una grand’onda – Di scendere a patti e dimostrare – Voci mi paiono emergere appena dalla mareggiata – Spiriti immensi, non so immaginare cosa sia davvero vastità ed ampiezza e come questa stia in una mente, se collegassimo le menti a far braccetto trovando questo o quello in comunanza e lo stesso amore, sentiva spesso solo dolore. In questo modo unendo delle molte cose che raccogliamo, tutte si rimarchiano e collegano, tutte facciano buccia unica – Ed io colle mie cose sarò sepolto, perché nulla può reggersi disparità, allora quanto fare, che fare, perché il pensiero scisso sia finito e non porti nessuno a conclusione. Congiungere il pensiero non è cosa esterna, non fa vittoria alla scaramuccia – Congiungere il pensiero non è poca cosa – E non è scontare e sfrondare quel che prevale; questa è la base per cui l’uomo debba amare l’uomo. Anche nel riposo dell’aria fresca e tiepida che scorre, viene la morte, assembrando i suoi segni, anche se protetti dal loro lieve stare, anche se il mare marcia più grande, disponendo i suoi frutti a schiere alterne e guarda, opposto e continuo, e non offende chi sulla spiaggia guarda, anche se il letto è teso ed il lenzuolo appoggiato spontaneamente con ombre, anche se sguscia l’essere da ogni piega, anche se il tempo non cerca nella tana e l’umido fetore non abbraccia, sprovvisto di ogni termine o valle anche se è così consistente la natura delle cose e compatta da urtarci come un muro senza brecce, anche se l’essenza, e la continuità è ben chiara, e che tutto non cessi mai, per nulla, viene, viene in questa estate turgida la morte, e non sa di sapori / è estranea all’essere che tocca. Insegnami a marciare sulle cose tu intera, tu feconda di stelle, tu illuminato latte che risorge, tu che non sei infranta,, di cristallo intero. Come è possibile che sia dibattendo il divino, che si è rotto qua, davanti. Come un grumo di bucce, come un uovo. Eppure partire / i segni strani di ogni giorno, di ogni più piccolo stato, di ogni minuzia d’essere, indifesa – Mio monarca, inventato e infamato, più provvisorio di una somiglianza, mai trovato, mai scisso, incòlume, malgrado, bestia che ti azzardi? Che fai? Mio monarca, mio pallido monarca, calunniato / nell’attesa più volte calunniato / monarca dell’isola fantasma, luogo d’assenza – Ma io, presente qui, sono l’autore e mi dilanio d’essere e rigurgito sangue e si affastella e sbuccia di ogni pelle per numerose mute, ma non trova se stato permanente con quella interruzione che ci aspetta, un reciproco bacio, una carezza d’addio – Fummo coscienti, l’esistenza per gli esseri inesistenti, è leggera, scivola via sui drammi. Qui la guerra, qui la pace può stendersi di nuovo, ma noi siamo memoria di ogni cosa, segno e graffio pressante. Qui non c’è vittoria, esacerbata calunnia, non c’è vinto, siamo qui contenuti e vogliamo essere. La morte s’incammina sulle dune, con aleggiante vento dai canneti, appartiene alla compattezza del quadro, è naturale quel che ciascuno segue, è un po’ diverso e l’essersi accorto non è marginale.
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