LIBRO 115
nel cosmo, un po’ sospesi
rivestiti di anima
rigogliose creste d’onda
La coscienza e il funerale
Il giudice finalmente si è distratto. Tranquillamente stanno gli uomini guardando. Finalmente sanno stare nel cosmo, un po’ sospesi. La nuova era s’affaccia, dove è stabile il destino. Come se tutto fosse evanescente, spettacolo di terre e di poteri. Territorio dell’etica, etiche opposte. Come se il consueto essere svanisse. Lasciate stare il giudice, che codici contorti non risolve – Nasce la nuova era, dove, integrati al cosmo, sappiamo o non sappiamo. Dove, chi non si compiace, s’arrende, giudicando sé stesso e condannando – Qui si conclude il balordo viaggio: ancora ad attese alterne, senza riparo. Dove, su terra inutile e scoscesa, ritrovai l’approdo. Siamo altrettanto dentro il chiaro che allo scuro.
Il peso non è aumentato delle cose, ma lo spirito non le regge – Non ci siamo accorti del diluvio e di portare in salvo coppie di animali – Qui, talvolta immersi nel riverbero verde, pensiamo che tutto ciò non vada perso, pensiamo che lo spirito si incorpori in un incisione, che il destino sia battuto con malta e faccia intonaco fresco; non mortificati di essere sopra gli animali come, abbiamo vinto la guerra, predatori, dei predatori e vincitori dei vinti. Non c’è arca, c’è possesso della terra, c’è possesso dell’arca che galleggia, e speriamo, e trabocca e ribalta, tentando un inutile approdo al di là del cielo – Quale mondo vuoi popolare, già ben fatto di spirito? Come in una marea, l’acqua si ritira e la terra secca, e noi, come granchi, ne traiamo molte opportunità, l’acqua ritorna filtrando e gorgogliando, ed espellendo l’aria dai fori. Le voci di donna che chiamano nel cortile, vivaci, ironiche, preludono all’attuale silenzio. Faccio che esista il silenzio – Faccio che esista il silenzio. A questo fine, empatico, sopravvenuto immobile al contorno e sconosciuto.
Consegno le mie memorie come fossero fragili, le conoscenze provvisorie, murate vive, le dimostrazioni, arabeschi o tralicci che arredano l’umano. Quello che vedo è, tragica è la conoscenza, perché scende nel cuore. Quello che avete fatto non sarà durevole, signori! Dove il sole risorge e si inabissa, dove il sole viene per le larghe strette. Avvolto in poche parole il succo del sole. Se lo chiudeva in un cartoccio.
Tanta felicità prende un moribondo. La gusto come un sorso. L’amore dopo la vendemmia.
Luna, a chi credi: a me e te, a me, o alle tue stesse bugie? Perciò cammino, finché sia tempo che il vero si congiunga alle bugie e dal cavedio veda Giove alto, stralunato – Cerco follia congiunta ed essenziale. Sciolto, è lì disciolto il vero nell’attesa – Dal tempo in cui le cose sapevano sé stesse, è passata la nascita di mezzo, l’emergenza di esseri che la riguardano – Il gabbiano discende sopra l’aria, la prima brezza, la prima brezza incerta, che increspa e trascorre; le cose si accarezzano ed increspano: io sono l’esistente.
Scendeva per le mura, per tracce d’infinito, fontanelle e platani, posseggo / il definito. L’anima s’avvolge come in un turbine al respiro.
Delicatamente, scorporando cose, tieni la vita al centro, assapora la vita, ma non ti vuoi mentire, collimando cose, il nucleo è estraneo, sorprendentemente simile alla porta d’uscita, a un vero appoggiato come un vaso, dove è depositata la sentenza, anzi sopra scritta (sul vaso apulo, coi caratteri sghembi e spigolosi). Non resta che continuare a riempire goccia a goccia. Trasmetti il sogno al sogno, lacera i mondi. Non resta che fuggire al di dentro, verso quella porta, rimpicciolirsi e non cercare la salvezza. Eroi, coi capelli imbiancati, senza forza, erano già fantasmi di sé stessi. Meditavano la speranza con insistenza. Braccia corte e un ventre prominente. Non erano più loro, erano altri, e così di questo trucco da carnevale, potevano non essere più, trasfigurando. Completare il destino non è un gioco, ma solo allora il terrore vedrai nudo. In una camera d’albergo, spaesati. Non sono questi gli eventi salienti, non questi i fatti, gli odori, gli uomini che ci interessano, non la ressa dei suk, i negozianti fastidiosi come le mosche, i graffiti – Marchi e graffiti dei drogati, non chi s’affaccia, a chi dorme disteso, quanto le lattine sparse. E non parlo di urina, e tutto il sudiciume. E tutto il sudiciume è mischiato ai fiori, e tutto l’irrilevante. Questo non è uomo, ma poesia. Né poesia. Tutto questo è scoria: nulla la redime – Dirada l’uomo e rivedrai la bellezza. Nessun ribrezzo suscita la visione.
Di tutto il mondo che il verme corrode, del tortuoso mondo che conosce, di quello che concepisce, delle volute che il fumo varca nell’aria, il fumo filiforme, quello che chiude stretto o ampio, qualcosa vuoi trattenere. Quale vuoi trattenere inalterato? / Superfluo sembra tanto, del tutto, e con poca sorpresa ci raggiunge. Troppe cose superflue e leggende. Troppe accessorie. Le volute che hanno cercato le parole, per cercare, contengono l’indispensabile. Per essere di tanti destini, quale tenere sospeso?
Era ancora notte comunque / e sempre vagavi, e sotto traccia restava, nobile, immacolata. Spargi il percorso argenteo di lumaca, per l’universo, in forma di galassia, e aggiungi, aggiungi! Tempera e stèmpera, sparso è il percorso; tieniti stretto alla superficie di quella voragine. Non barcollare! Spargi la vita ad ogni angolo del cielo, tu, lucente lumaca, ancora accetta e vuoi!
Le nostre offerte non sono bastate. Vedi il tessuto sfilacciato della vita. È trasferibile il disegno, non la materia. Dunque tieni il disegno, impara a generarlo. Il monaco non tiene mai la materia. Se la vita si amplifica e s’impara, ogni volta riprende su corpo sano. Solo per oggetti e per significati si scambia la vita, quando coscienza viene a mancare. Prendi coscienza tu, svègliati e cammina. Lavorano come formiche, di nascosto, per formare l’incomprensibile e il segreto, per formare l’essere che sfugge / all’essere deponi la coscienza sul guanciale / altri la avrà per te. Certo, spargi significati, segni di lumaca sparsi. Solitaria la coscienza si guarda snella come un delfino quando salta. Nella voragine che mi divora, a nessuno di voi chiedo salvare. Solo per similitudine delle coscienze, il simile si turba. La vela va più alta e oscilla al mare. Non puoi essere se non si ispecchia. La coscienza d’essere riappare nitida e mostra l’essere del tutto. Raccogli tutto allora, come ho fatto quello sarai, che è e sarà quel che sei. Aiutami a sentire il margine dell’incompleto! Con quel che vedo, non più che quel che vedo. Questo ho a disposizione per rappresentare il mio teatro. Questi i miei personaggi, queste le analogie; altre frasi non conosco, ma forse è sufficiente anche per chi possiede altro mondo, altri pianeti, per vedere lo stesso ordito, il numero costante – Per l’orgoglio comune d’esser nati, esseri di universo. Solo questi i nostri animali: questa l’enciclopedia. Difficili scenari, altri scenari non ho mai vissuto e sopra l’uso degli stessi argomenti. Prestami però immagini ulteriori da quel pianeta e stendile sopra il simile tessuto, di amore, guerra, colpe, vita.
Quanto benevolo trovava il popolo, finché era ricco. Facce e animali di altri pianeti, comporrebbero il quadro, con lo stesso stile. Col mio carretto di poesia girovagando. Qui ci sono molte cose, ma non tutte. Tutte non stanno a me comunque. Dentro la scatola si mette il mondo, esseri considerevoli ed estranei, necessari e superflui.
Incontrai il mio sguardo, allora esistevo. Non esiste quello che non sa d’esistere – Esistere è sapersi. Minuscoli destini che si affollavano intorno al Re: scambio di sguardi diffonde nel mercato. Io ho abbassato lo sguardo, non potevo sostenere il mio sguardo terso: lì cadeva nell’abisso. Se guardo sono nulla, sono di quel che sono guardato.
Ci sono luoghi oscuri, anche a Dio, dove non potrebbe essere, come chi lo cerca. Cerca sorvolando. Neanche Dio e i suoi seguaci. Ci sono nicchie nel destino, morte del mondo (intestato) lasciate dai rami secchi del destino. Esisteva e non, a tempi alterni. Sussisteva ad esistere. Senza lo sguardo e gli sguardi d’altri, senza sguardi non è mortale. Chiudo le palpebre, elimino la luce, ma non è mortale. Nessuno può uccidere, non guardando: continuerà, continuerà indipendente. Ma non mi posso uccidere non vedendo, io non essendo visto. Il possesso di sé persiste. Molte volte pretesi la mia assenza, ma fuggii solo nel sonno, dove la parte spenta non guardava – Non sottrarti allo sguardo dell’amore, che ti faceva esistere del doppio. Quando neanche il sogno, il sogno inconscio avrà portata, ma il sogno avrà la sua coscienza d’essere, fragile, rispecchiata – Lo scenario degli sguardi fa / esistere il tempo.
Non era il tuono supremo, ma il Dio parlante, ma il rullo dei tamburi. Erano gli uomini affollati, che guardavano avanti. Rombavano i motori, i fanali avanti; il loro seme dilagava, il loro seme dilagava. I tamburi battevano tremendi, i fanali erano rivolti avanti, erano idee in branco, che vagavano come pesci. Là il principe compone perle in collana, ma lo spirito non è divino. I popoli forse videro Dio avanti. La vita non possiede nulla di divino. La vita non possiede nulla di divino o permanente, tutto si avvolge e rivolge come l’acqua.
Delle forme che ha mostrato il pianeta, tutte affini, scelgo quelle utili, le altre uccido o tralascio. Così sarà salvato il regno, senza spreco. Così, a vari gradi, le cose stanno, ingiusta gerarchia, starebbero i viventi, senza dissidi, utili tutti all’insieme, felici tutti di ammirare ed amare chi sta sopra, rispettare, prendere ed amare chi sta sotto. Gli animali saranno felici di obbedire. Molti nuovi animali per incrocio e predilezione, che i confusi millenni mischiano scriteriati / che qualcuno sappia essere imperatore, nessuno sa – Così affermava, proponeva e diceva, senza fretta. Propizio è l’amore e il garbo, per avere civiltà. La vita non accetta conclusioni.
Se non vuoi stare per la parte che il teatro ti assegna, a questa la coscienza si incrina.
Questo è lo stato delle cose, questa è quell’ansia che prende quando il mondo chiude. La meta non è in un punto, come se, per progredire, diventassimo microscopici e lontani. La meta è ampliare, che si espanda comprendendo, e progredire. Tutto il mio vagare ricomprendo, i frutti dissipati e sparsi. La vendemmia deve ricomprendere quel vino. La vendemmia si barrica del suo vino. Amplieremo la meta adatta a noi, senza più precetti, colle cose in mano, non idolatrate. I relitti si lasciano in fondo al mare. Terremo cose in mano, a forma d’anima, a forma di sogno. Ora l’uomo stesso avrà forma. Non puoi correre, se è buio, come le aragoste incappucciate. Precipitare nel buio. Non c’è essere che lo voglia – I tuoi atti non produrranno solo cose; ma l’anima le rivesta – Così lontano, passato tutto questo, la mente sarà svelta come un levriero. Io proseguo nel mondo che scorre. Prendo la guardia e guido. La nostra fuga compete col destino. Non è lì la meta nel punto dove è messa. Avremo il cranio di animale, ma la mente divina. Saremo noi stessi il fuoco, il flusso. Avremo sede nell’oltre. Il punto non è più discutere e contraddire, essere le forme stesse. Piano, evolvendo, che siano nel mondo.
Sazio di sonno. / Rimbocco i margini / della vita e vado altrove. In mezzo ci sarà il dubbio e l’incognita frastagliata, ci saranno fessure di luce, rigogliose creste d’onda. Insonne, vado a vedere oltre la morte, dove abitano gli altri. Altrove è il ribaltamento di sé, dove altro continua. Se noi siamo lo stesso essere che continua, se apparteniamo a quello che continua e senza ostacoli, continuiamo come un unico essere, un’unica forma animata, non è la coscienza che garantisce, non è necessaria – L’unica intelligenza del pianeta solleva parole. – Dio delle nubi, ascolta, caotiche e indifese, a noi piace migrare, vogliamo solo essere.
Vidi il vento allineato con la luce, quindi con l’ombra, e ciò mi sembrò giusto. Ai margini dell’ombra si travasava un pensiero oscuro.
Oggi congiungo i baci alle carezze, così io posso fare come il vento, che va e che sta. E se si ferma non esiste – L’ansia di vivere mi spinge ad attraversare l’esistenza senza sosta. Quel regno, quel castello, denso di ràntoli e appestàto. Tu non vuoi che io sia, tu non vuoi che sia il vento.
Riprendi la parola e Sali il sacro monte. Santo è il destino che è nel sacello. Vieni ed aggiungi le parole all’uomo. È molle quello che è senza destino – Misura il caos, non si distingue. La forma si misura con le forme. Nasce il mondo – Distingui la propria natura, e aggiungi. Il falcone parte a rotondo e fugge. Non torna con la preda. Ritorna senza preda almeno lui. / Così l’ubriaco non conosce ritorno, non conosce la meta, ma amplia il percorso. Chi siete coi che guardate, con sguardi rettilinei, con fuoco negli occhi. Vagare è concentrico, ma espande. Ho condotto molti animali al sacrificio, pregando Dio che facesse. Aspettavo che facesse, che governasse fortuna e caso. Vorremmo che facesse del caso / destino. Eppure, il destino non è quello che accade, ma risiede. Quando il deserto si copre di rugiada e sentore di fieno, scendiamo dai cammelli e sediamo ad assaggiare dalle tazze snelle il destino fermo fra arabeschi orientati. Il cielo, che non ha centro e non ha luogo, serve a ritornare al luogo fatto del nostro centro.
Aspettavano il morto, annoiandosi davanti alla chiesa i becchini aspettavano gironzolando, a giri planetari, guardando a terra, contriti per mestiere. La vita appartiene a metà a loro e metà a lui, e l’altra lui l’ha consumata. La coscienza è rimasta a loro, seppure dimezzata. Nessuno urla e non piangono, come si faceva. Guardo l’orologio che non sia mai morto? Potrebbe nascere un contenzioso al pagamento. Pagano i pianeti a metà, se non sia mai morto; truccami vita, e dammi la speranza! A quella cerimonia non vorrei partecipare. La vita possiede entrambi ma la coscienza si riassorbe e ritira dall’interno, ma se si richiude in un punto, il morto stesso sparisce. Non hanno di che seppellire. Il prete non ha di che benedire, le rose del tempo girandolano cave, come turbini o vortici. Mio compagno, aspetta! Ritìrati dal rito. Brucia prima che sia tardi la coscienza. Di certo siamo viventi, e l’anima si vede – Certo festeggiamo i successi e delle costruzioni il tetto, delle frasi la fine, il più alto stacco dei pensieri – Quello che resta è fermo e inanimato, orgoglioso e protervo, ma non si risolleva la patina che guardiamo. Prendi quello che dico, ripiega e mischia coi tuoi fatti, caso e grande intenzione. Seme, che semina il tuo uovo – Di quello che hai preso, consegnerai altro, e il malinteso e l’audacia e la contraddizione. Fai pure quel che vuoi della forma e dello stile supera il bello, fai quello che piace, a piacimento – Risolleva la testa e impara. Invece del morto corpo, seppelliremo papiri, disegni e progetti disegnati. Urla allora e piangi come le megere, se si stracciano, e il ladro, che non trova oro, le disperde. Dammi la chiave dello scrigno, che controlli e cataloghi il lascito e divida, ne faccia parti a chi merita, e nessuna vada a chi lacera e conserva, a chi getta e non cura e non capisce. Ogni opera è la parete istoriata dall’ornamento. Ora è tardi. Quel che è compiuto resta. Il resto si rimescola nel vento o sommerge nell’acqua. Corro all’appuntamento, per non essere scortese colla loro forza – Capaci d’essere! Il nostro mondo stava lì, scucito.
Spacca la rete e fugge, trasversale. Non fu più visto. Nessuno sopravvive alle tigri e agli uomini del bosco. Ma raggiunsi il luogo, dove il mare è fermo al primo sole. Le giostre non girano – Il vento lieve si infraguglia come la lingua stretta della fiamma: i miei segni illeggibili ritrattano le forme – Tu, col tuo cuore stretto, mi spaventi: essere di superficie è l’uomo – In tutto l’uomo è essere di là l’orizzonte e in mediano, in mezzo l’ombra che divide, la follia della farfalla alla risacca, perché non regge la notte la farfalla – Raccolgo fermenti di risciacquo a te che leggi. Tu che rileggi per sapere / dove stanno le cose. Tu che sei abile nel bacio. Tu che vivi nel suono delle rocce al mare perturbato. Un sasso tocca un altro sasso, all’occasione. Così, nacque l’acqua, lenta ed inquieta. Così, dentro ad essa, consci che il futuro mi riavvolge. Le case si svestono dall’ombra, rilasciando il manto a terra. L’uomo si ricontiene. Sotto la luna bruciata, sotto il soffitto terso. Seguendo il piatto volo, mischio le mete / e sciolgo nell’acqua le parole. Alle spalle ti genera ed incalza, sopra / sedimenti del caso e della fortuna, non quelli / che indietreggiavano, tu lo senti alle spalle, lento, senza riposo.
Forse pensavo all’essere quando di sostanza bruna mi cercò, mi rivide, mi sentì nel suo grembo. Fu due volte ogni cosa. Qualche ansa di porto, non qualcuno, non vide. Questo era il doppio fiore d’universo. Tutto era contento nelle semplici combinazioni. Tutto perciò nasceva e sapeva nascere. Dove oltre, dove questo? Ed il fiore – Quando aspettavo d’esistere navigavo tosto in questa mattina. Dietro la torre si taglia / l’orizzonte. Nulla che teme d’essere questa mattina.
Io portai la vita alta ed altezzosa. Tenni il freno ai cavalli svincolato, disprezzai i consigli, per pallidi che fossero, e garbati. Ora, nell’antico suolo, dormo, spostando il sasso, valutando la mia origine binaria, atomi duri e combinati. Ci sarà un modo per scoprire il ricordo ultimo. Là, fra gli altri, scovare combinazioni, modi più sciolti e vivi, come se la coscienza potesse emergere e sgorgare. Tu hai pensato di riemergere e guardare. La coscienza non era nata, quando parti infime ed uguali formavano la diversità. Per quella assenza di felicità ho viaggiato. Senti, senti, senti, quanto le cose dolgono sul cuore. Quando nessuno, dopo che è nato, capisce l’esistenza.
Misera misura. Abito la misera misura dell’uomo. Altro non posso. Alza il numero, non la misura. Finisco sempre là, dove il diluvio si rapprende e il fiume trova il flusso, e gli animali giocano d’amore sulle ultime spiagge – Dammi la stessa rampa da cui scesero, e poi mettili in salvo. Prima che il dipinto sbiadisca e le forme siano sconosciute. In un silenzio diritto risorgeva. E quell’enorme peso scavalcava. Non per essere, ma perché fosse. Sotto il suono abitava. Il suono, una sirena con molti frutti intorno, e la salvavo. Su quella stessa rampa io volevo portare, anche forme inaudite, anche tesori, scintillanti quisquilie. Come è evanescente di fronte alla morte, la morte!
Vai, che la luna spinge i desideri, scuote i desideri, perché un’anima scorre sotterranea. Come l’acqua scorre ed affonda. Ma dimmi tu che l’hai, perché non usi, vivace come l’acqua, scorrere nel cosmo? Qui il luogo si disanima e scompare, qui il luogo attende. Perché allora scompare? L’anima ti rincorre, così dissipata. Non quel che vivi dovrebbe essersi riempita! Dove la svuoti, a quale terra fertile e feconda? E la riverisco lì, in un vaso d’argilla. Rudimentale arnese la parola, finché le percezioni non si trasmettono esatte. E, insieme, sia uno ed immortale.
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