LIBRO 118
Il poema in pezzetti
Nel dominio delle cose, proviamo a governare
La misura, la donavano al popolo, inviluppata in carta
Il sole si trovava fermo e retto, sussurrando ai sussurri. Nel profumo del pane sta il mendicante per il soffio del sole fumoso. Ho cercato anime inesistenti, perse in luoghi non visti – C’era un’anima a cercare, fuori dal rigore del vero – Ho connotato enigmi perché sia chiaro in quale luogo stiamo e da dove scende l’assenza feroce. Ho connotato i limbi del pensiero, ho indagato i limbi ed il pensiero che stava galleggiando sopra gli umori – Siamo stati, esistendo come uno scenario, come una scena – Presi i fiori, gli oggetti, come ventri di fumo. Sono stato in risalto come anemoni al corallo creando la realtà. Germinando ogni giorno poco, che resti roccia, noi tendiamo fili di diamanti e perfetti. È semplice nella realtà. Quel che si dipana, si disfa – È un reticolo imprigionato, elementare, tutto dipanato, si disfa alla visione – Ed i piedi di Dio fra le lanterne, ed osavo andare nell’angolo meschino. Avvolgimenti di luce, una misura che semplifichi il tutto. Costruisco la felicità per questo scopo: per filare il corallo ed il campo – Fili di luce per il mio possesso – Li prese e li annodò l’esperta filatrice, l’amore col pensiero – La verità. D’istinto con la grande bugia – La forza dell’animale, con il metro; e una sola misura, che semplifichi il tutto, che lo tolga, d’essere complesso, oscuro; la mia felicità tessi con gioco, non per giocare, ma essere e formare l’istantaneo accesso al flusso – Coll’amore che lo prende e lo trascina – E là, e là, la vide mentre profilava, distorta, la sua armonia. Ottima attrice. Ed essere nell’attimo, non è meno santo ed essenziale – E l’amore, il ricordo, ciò che non è avvenuto, non hai accaparrato, per te in più qualcosa – Quel che prendi d’esistere, lo lasci e non presto, spero – Ma dopo, per un soffio, culminare per lasciare di più – Tener l’amore stretto come un peso – Dov’è il mio freddo sotto e nascosto – Dia peso l’amore al nulla che è leggero – Venga a un solido peso; per poi essere scomposto – La fioritura si riarchi e sappia – Non vedo più nel moto dei pianeti, sigle ed enigmi. Ho esaurito le energie per fare conti notturni – Che c’è al di là di quelli, a trovare che fosse più semplice e unico: un vettore in una curva – Creo la felicità in un seme, a germinare – Non per la felicità, ma come un servo, perché sia ricco il frutto, sia come un gonfio ventre – Non per altra felicità, per un residuo ignoto. Tu che sai essere felice in uno scopo, togli una scheggia, togline una spina. Torva dove sei e chi sei, senza sentimenti – Abbracciato ai riverberi del mondo – Perché scendi nel cuore delle cose – Chi è e chi non è: chi non contiene. Venite tutti qui, fatevi stretti. Così mi piace, attimi e memorie rammischiate. E tu vivo ed io morto; e tu di questa specie, ed io dell’altra – Di finestre riaperte e di memorie, non ammetto che il frutto sia spezzato. Certamente sono all’opposto, se vi vedo così chiaramente, sono in altro mondo delle vostre figure – Contenevo la felicità, la contenevo come in un baccello: la emisi come un getto da una gemma – Nessuno sta dentro le cose, benché nessuno sia spoglio d’essere, dentro il destino denso e oscuro – Gli enigmi ci stringono le braccia – Caduti nel dominio delle cose, proviamo a governare; sgomberati i ninnoli degli dei, le belve e gli animali fastidiosi, è stata ampliata la città – Ma è il peggior governo con ampio consenso e senza scopo – Mentendo di vedere ai passeri, spettacoli serali alla crociera – Su quello che continua e non finisce, veleggiando di vento, non ancora vediamo nell’oscuro; spesso mentendo il solido sapere e metri curvi che fasciano non soltanto il pianeta, l’universo: sei sicuro che sai per le scene stellate? Descrivi il carnevale ricco e variato per cose e per persone e per balletti di gameti privi della scorza, privi di peso. In un filo si abbraccia il carnevale, di carte colorate e meteore filanti – Lontano stanno i pensieri, gli atti fugaci – Così s’arrischia il vento ancora a spingere l’uomo a mare, lontano senti, da quel punto tutto vedi; ma il punto rimpicciolisce a noi che stiamo – Cos’è? Dove s’intrecciano le cose agli uomini – Ma per coerenza prese la sua mano e fu nel mondo stretto, disparato. A quanto pianto, a quanta distonia: defunto – A finitura di essere, a supplizio. Come sangue di toro sull’arena – Ripercorri a rampa cose, fra le stelle; qui non mi piace come cresce la terra, folata alle ramaglie, che le scuote – Vedo limpido il cielo e le sue terre, il vento siderale che le scuote; il mare argenteo inquieto come fatto di liquido mercurio – Trema l’onda al suo tatto – Prendi il poema, spezzato in pezzetti, non è più opera d’uomo il suo cristallo; non è più geometria del cielo, sua pretesa – Non più è dove sei, con un filo appeso come abile insetto di esagoni e losanghe: il curvo ora io vedo nelle mani tremare, vedo Dio paziente, sopportare; che non misura e cerca di riabbracciare – Il cuore ha spinto oltre, a baluardo – Patetica poesia, sorgi sorgiva – Bracca le stelle, insegna poi all’uomo – Vorrei generare sotto la cascata d’acqua, il prato; e il laghetto e la misura d’uomo che si stende, non altro venivi fulminando / azzardando, concretando – Sulla terra si strisciano le cose, e siamo vermi inermi nella terraglia, senza sguardo e prospetto; e dove stia al cospetto di gran fuoco, sul mediterraneo fiorito, a descrivere il cielo dei suoi punti una polvere bianca sparsa e lanciata in alto – Dammi la forza che merito al cospetto – Vicende e fatti piatti, di risulta – Dov’eri quando stanavo le mie belve, che si sparsero intorno trottando, dopo aver guardato. Appanna gli occhi l’assenza di un ricordo, uomini vuoti! Ho una cisterna piena d’acqua fiumana. Priva di consigli e solo acqua – Tutti vivono in un cencio di percorso, di strade aperte a rete; in una rappresentazione, di gloria, di vittoria o di vergogna, di merito o di ignominia, e non si ferma come la freccia all’osso o al cuore (di gloria o di ignominia) – Ho scatenato le mie belve. Ancora si aggirano nascoste – Da due occhi brillanti nella notte sei guardato – Salire, le voci che si infrangono alle messi, vinto l’inverno – Penetrano dalla strada cocci e bottiglie, rotolando sul fosso – La carezza procede in su alla spiga chiudendone le punte. Tutto si dirige, benché pallido d’essere, con sangue in vena o senza – Se non sei di questo mondo e se non sei dell’altro, non c’è teoria che ti spiega e ti sostiene – Sei come una coperta e un velo: possiedi la visione e non vedi niente che sia sotto le cose, perché non sei lì anche se tutto sei sommerso. Emergi e non vedi più perché non è il liquido da cui derivi. È un percorso rotto, senza spazio: di là si piega, di qua non ha foresta – Sono volato a cercare il nido e il cespuglio. La mia tana, le prede, ma non c’è più niente, si è disfatto – Né la mosca, né il ragno che l’assalta, né la foresta china. Di lì non si guarda dalla plaga l’uomo che torce e muta forma. Ai confini, vuole vedere, ripulisce, e nel distretto penetra a guardare; a forma di macchia, poi di losanga e di quadrato, e di lista che poi non esca libero animale, non sappia altro di noi e sarà meglio – Avidamente mangiò carne, prima la percosse – Brucia sull’acqua in superficie, luce radente; non così mista che non sa creare. Ho visto specchi deposti al terreno, pieni di cielo, posti sul mare a gonfaloni di guerra, a rimarcare l’uomo: spariti punti non riesci a proteggere lo scopo se ti affrontano e affliggono gonfaloni e stendardi su per il mare – E con la guerra, Principe, difendere gli scopi – Difendere il muso alla faina, il pesce all’orso – Di certo sono, non so se lo sarò. Intanto sposto cose, le collimo, cerco la ragione – Come un suono di flauto dal mio petto, un suono che annerisce, come un bronzo; vorrei fossi nel giusto alla regola ferma – Intanto vedi imbrunire il bronzeo specchio – Quando solo le lanterne alla bonaccia, quando s’appoggia l’uomo alla sua sponda, ritirato e protetto, un solco nell’acqua non produce: un solco. Ferito il mare e risanato – Qui naviga, qui gira, il solco profondo che la terra incide al turbinare; privo di soluzione e privo di condanna – Perché abbandonati alla nostra felicità, festa di zombie? Respira appena il tuo corpo fugace – Togli dal lazzaretto l’unico sano – Che si impiglia e inciampa ai panni dei malati – Ho preso la mia vita per un soffio / dal cadere. Perché la primavera s’inerpica soffiando e magistrando? Ancora allacciati qui alla vita, ancora protratta e pervicace – Tu che vieni, superfluo e di passo modesto, vieni come un consiglio inoperoso, senza vitalità e pur senza silenzio – Gioca la carta secca: tutto gioca. Non ripiegare il foglio quattro volte – Prevedere è audace e ingannevole esercizio – Stai come giusto e rinchiuso in un granello. E sospende di vedere inasprirsi leggero – Ti ho sottratto le spine ad una ad una per la tua felicità, senza rimorso – Che sai del dubbio? Come infilare quel che è buono e cattivo, immenso o stretto, comunque di disagio, ombra millenaria che si stende sulla prosecuzione paradisiaca – E agitarsi, agitarsi soffocando per mio terrore – E non immaginare. Stanno lontano, quanto la vita possa / non avere pace – Gli scrupoli non vedi, le cartucce del vero.
La notte è scorsa come un vespertillo, quando batte le ali senza suono. La notte si è agghindata di bevande e ristora nel sogno – S’è agghindata di simboli a collana – Da un percorso strano ho raggiunto l’anima agghindata, in un luogo di macerie, in una stiva – Debole indizio d’essere – Non così profonda è l’uscita – Non l’amore e le carezze risollevano – Solo quei piedi vedo, con tante lunghe dita, che aritmetica traccia e non capiscono. Si concretizza nelle delizie alterne la vita; s’allevia spaesando. La primavera mi agghiaccia coi suoi scopi e penetra nei sogni, scardinandoli. Lì abita Venere, che collega il mondo e, facendolo di forme, lo ricompone – Non guardare il più semplice, appassionati d’essere; e là partecipando, venendo in divenire: essere fra esseri, senza maggior potenza, personaggio di scena regale, d’eccellenza o di squadra – Di giostra o di servizio, ponendo di diritto o guardando di sbieco. Così, se non capisco, faccio parte: sarai schiera di esseri vissuti senza la stesura dell’enigma – Bruciato in una pira per distrutta memoria, per sospesa e distrutta, arrovellata e inaridita, fermata dal sangue raggrumato – Ma proprio perciò, disfatta e disfacente. Sguscio la bronzea sfera, che ne prenda peso – Perciò tutto abbia peso e prenda peso, tutto quanto, l’anima e di più – Oh! Santa, nuda donna, che mi abbracci e tieni stretto alla vita d’accoglienza, mostra i tuoi seni, mostra il latte, lascia che avanzi a poco a poco e trovi di là il razionale, ancora più semplice, ancora minore, elementare: più semplice dell’algebra e dell’uno – Per me tu ricomponi il due, perdendomi, e così mi sono persa di tue movenze e del perfetto seme – E le promesse strette, e le feconde, dove mi trascinasti per non vedere e, vedendo, consumare – Mi hai dato il peso che volevo, per un poco. (Talvolta le foglie vibrano se il vento le tocca. Così / io vibrai alle sue mani). Queste erano le luci che non voglio lasciare: luci ed ombre di insetti mobili sul muro. – Hai guardato fuori dalla commedia il carnevale, dove si scorporano smascherati i fatti? Dove le persone sono finalmente fatine e draghi – Chi esiste lì possiede l’esistenza. Anima pura, aspetto degli aspetti – Qui tutto si torce all’esito, quisquilia – Dove hai visto il destino accartocciare per lunga cosa, per sue lunghe membra – Finalmente sei stato, in un momento; quando essere altro, così fatto. Hai dato buon auspicio, mondo ritorna: di danze dalle febbri suscitate, di terribili pesti, scese le scale – Guarda là, il rimorso sale stretto, guarda di là la morte ballerina – A chi mi appiglio? Alle vergini che promettono ammiccanti e vedono oltre e sanno, svestire di sogno, tener di conto e ragioniere. L’aristocrazia benevola. Esce sconfitto ancora il cuore infranto al ciglio della morte – Esce dalla leggerezza l’esistenza e e vi fiorisce– Spoglia di quella morte clandestina. Alla fine rimarrà riversato come un guscio vuoto – Stanco di vivere in un luogo vuoto – Cerco la vita: perciò sono inquieto, fra le maschere e i sogni, se stracci e laceri i suoi pezzi – Cerco la vita e pallida e decisa mi sostengo da solo, ma non posso da solo il regno sostenere. Traete misura da queste cose, come un filo, da queste vicende e da questi pensieri; e datemi la misura, la più giusta – Sarò felice quando il metro scintillerà nel podio, e quando il cubo per litri d’acqua d’aura fontana: e le rane e gli stagni del giardino avranno bordo, avranno moto di alberi, di dipinti, si fermano in telai di carta – Re, che trascorri i corridoi, ascolta gli avi, che avevano la forza della misura, la donavano al popolo, inviluppata in carta, forme di pesi – Se dalle scale lì sono arrivato al colle, ho guardato la vita ferma sulla pianura. Dove i cartocci svolgono di spezie; cartocci di fritto di animale. Tutti gli attimi erano / vitali – Ogni singola visione, là remota e piccola lasciata nell’insignificanza della mente. Re suscita, sovvieni; sorridi ad essi. Loro non si devono spiegare da sé stessi, non devono sostenersi ed essere sostenuti. Credimi, ti accorgi? Ti accorgi che tu sei muto e cariato come il trave che, bagnato, non ha retto – Sotto il tetto da un lato – Oh! Mio cantore, dove canti alla pianura – Frattanto non hai visto i grandi fatti, i piccoli ti mostro, di risulta. Ora li mostro interi, non come allora che parevano inerti, spezzati e stolti. Ho ben avuto ora il sentimento, che non avevo – So che ora sono Ercole e l’eroe; allora non ero niente, mentre vivevo mentre ero Re, non avevo potere – E troppo svelta, la vita era imposta e comandava – Comandava sui re; benché di alto sangue, comandava. Ora, mentre sono qui sopito e rimugino i sogni, o sono alto, molto sopra le cose, ma le uso ora e le voglio – Mentre sono qui come un cantore cantando fra le pesti, senza aver visto il peggio, valutando il destino perché sopra di esso non sia cosa – Di tutto quel che vidi era un modesto filo, che ho preso e tolto, che ora ha il valore che sarebbe stato – Un docile presente, una luna riflessa e tremula; e là non era – Reggimi il braccio. Solitario non è chi si misura; anche se in silenzio, anche se / ritratto – Anche se aspro, muto – Sotto lo sguardo del Dio che sopra passa – Sgranocchio i gamberetti di tempura, qualche volta il mondo è pallido e leggero, e lo reggo come fosse vuoto – Quando i poeti potevano invertire, la storia – Ecco la vita, in mano, sangue, eccone il sangue – Trascinando alle nozze un lungo corteo – Non c’era nulla che potesse esser felice, nulla che amasse d’essere in sé stesso – Come ad ogni mattina, ad ogni alba sollevasse la testa, fosse orgoglioso d’essere – Che è vita, ora che la puoi pensare, dall’oscurità si leva ciò che non capisci – Pericoloso strato di non essere abbastanza, ferma il braccio, deposita la cetra, solleva invece il viso. Starò qui ancora fra gli allungati aironi, perché li ho visti – Ferma l’ansia e dipingi, perché tu abbia vincere; e tutto sia ammirato. Mangia le cose / vive! Sono qui disposte a cacciagione. Colle penne meravigliose e ferite.
Disegnando sulla terra e sulle stuoie parole di pennello – Dove è scritto colle idee: la sosteneva eppure nel velato dominio provvisorio, meglio degli eserciti, meglio dei potenti; prima dell’aldilà, salto supremo, che straccia uomini e vesti, che è sopra le cose, ma è di loro fatto, efflorescenza, e non sapessimo, maestri di misura, stare in bilico fra quello che vediamo e non vediamo – Anguste e strette sono le regole perché le puoi sentire. Quell’urgenza che spinge prima che il sole nasca, arido e secco il sole. Una volta il poeta abitava le regge, pur inchinandosi stava sugli scranni, accanto all’astronomo, per delizia e grazia – Così ancora decorano la reggia i segni. Le reti delle cose in cui si imprigionano perché il potente anche ha riconosciuto di essere di là dalla guerra, ed amore e guerra a precipizio tolte – Come si toglie il giocattolo al bambino, che urla e vuole; ed ancora il cammino, presto il tuo cammino, che sei mesi sale e sei discende, come un toro rinuncia se ferito – Così sei mesi scende e sei mesi risale, e traccia spicchi e chiama vortici nel cielo, e dai quindici gradi traccia il mese alla meridiana. Se puoi fare così, se puoi inverdire le tracce, ogni volta precarie, se vedi quel che è e quel che getta – Sia memorabile qualcosa che eppure non regge. Sia memorabile il pensiero quanto il rischio di morte e il coraggio di guerra – Se guardi e se trattieni, non ti serve – E cerco la mia ombra sul selciato – Appena un po’ al di là di altre cose – Il mio giorno risale, armi in pugno – Orgogliosa risulta di umiliazioni – In pochi anni tutto si è mutato. Le erbe cancellano il sentiero, l’uomo le strade; e tu sii felice di vedere e annotare i pregi della stirpe – Tutto non è uguale a prima che mai fosse – Se il Principe ha guardato, ha reso noto – Sul suo sacro sigillo, sul suo sacro sigillo, le sue attese – Sigilli alla rinfusa, oro da colare ai meschini fattori: simboli macerati e confuse storie – Ha fuso l’oro per spenderne i gioielli, a dame, a dame che divengono madri e battono la serva che risponde – I tempi duri sono passati, dai popolani ai negozianti, tutti volevano le teste – Sparivano le terre in contumacia – Ho costruito battiti di voce, perché la voce non vibra e s’alza – Non ha rami che crei per nidi, e stava chiusa – Tracci a terra i progetti, esasperato – Assaggiando il miele del tempo s’appaga, assaporandone il miele, assaporandone il tempo.
Percorrendo il cielo, inciampando nei diamanti e nelle effigi, percorrendo il luogo – Inciampando nei diademi, Principe e Re, che scese, si fermò alla soglia della terra, e lei lo vide, staccato: lei lo desidera, ne volle il seme, ne prese la vicinanza che irradiava lo sconosciuto, l’altro e l’amore: tutto il corpo fremeva del suo seme; fremeva per averlo e non sapeva, non capiva il suo desiderio ma era grande.
Ricco di simboli è il mondo, ti impigli ed inciampi – Ricco di diademi come è stato costruito, ed arabeschi circonvoluti – Non giudicare, non fermarti. Potresti fermare il tuo destino, spegnerlo nello stagno – Di vivere sei orgoglioso? Lo vedi? Prendi e solleva la rete, danne taglio, ma con cautela – Aggiungi ninnoli al luogo sacro, periferico; il ghiaccio si scioglie e smangia l’effigie – Poni il tuo, accanto – Tutti gli uomini arrampicano il vuoto, la sola cosa che conta è la disposizione; bambole di pizzi, brocche e vasetti, una manciata di monete per passare – Mi costruisco un luogo, me lo attornio – Grazie agli uomini che hanno tatto – Trattenne, sapeva, e immergere il respiro al sepolcro – Qualcosa non vale nulla; molto non vale nulla – Ma qualcuno ha fatto, per scopi che non vedo, un edificio, che previene la guerra. Un altare, un altare agli eroi prevenuti. Tutto si guasta e stride, e per muto che sia lascia il suo suono – Con lui sepolto, le parole scritte si sono mosse e arrotolate come vermi – Di dove siamo per uguaglianza e unicità – Dove siete, vi ho visto via sgusciare e schiamazzare altrove – Alla morte non piace essere, quanto noi al contrario – Posso vedere qualche epoca indietro, nessuna avanti. Molte epoche hai visto indietro, nessuna avanti. Solo la speranza o la difesa ha costruito – Tu cosa hai visto là, di là dalla guerra – Sei spaesato in mezzo all’uomo, spaesato sulle montagne – Non credermi soltanto dello stile – La vita non è nuova; un po’ s’aggiunge – Non dondola la terra quando il pendolo si inchina – Non perché si muove altro che non conosco – E l’anima svanisce nelle cose, come un fulcro perenne, ma dalla sua argentea bava ha creato forme e simboli di essenza, ed essenze. Solo i tuoi piedi vedo dalle lunghe dita – Descrivere come il mare le gocce – Se non sai cosa importa, non perdere il tuo viaggio. Cosa descrivi? La misura delle gocce tutte essudate – E dobbiamo rischiare ancora tutto, felici che non c’è tesoro di fuori più del rischio – Dove non vedo e dove non traccio – Ho disposto vasetti su scaffali. Dati i ricordi, estinti i ricordi, mutilando quel che non era mio, ma avevo avuto (canzone) – “E quel che più in alto non era nel ciel, e quel che più in alto doveva tacer” – Prendeva dalle lodi la sua forza, da quelle che verranno, se non qui – Ma i suoi scopi sono altri, sono ristretti: stanno su un tavolino – Né nel percorso più ampio mi affatico, pesante e solitario è ogni passo – Di quello che io sento hai poca traccia. Quando l’essere si spegne e si abbarbica nel vento – Affondando le dita nel vento della memoria – Ho aperto le cose sotto i tuoi occhi, come noci di cocco. Ma non c’era selciato che contenesse il passo. Ho preso un pregio a prestito e l’ho coltivato: questi sono i migliori frutti – Ho visto una mole enorme nel tramonto, e i bambini che urlavano per gioco – Tutti chiamo a vedere; chiamo a dimostrare – Se le frasi si spezzano a metà, fanno rilievo sulla terra e bastoni puntuti tagliano i piedi. Cosa mi permette di essere? Quanto contiene questa sensazione, di librare era il vuoto e il pieno? – Cose che non sono in un giardino, nascono – E, credimi, non stanno per ogni stagione, per cui già le vedo senza inutile attesa, senza inutili attese. Ho dipinto felice inutili rimpianti – Sacri fiori; ho visto sacri insetti turbinare rutilanti insetti, fiere decimate e pestilenze; tutte mi hanno avvolto – Io sono stato in piedi in mezzo a loro – Ho urtato molte cose di risulta – Più tardi avrò la gloria; quando non mi interessa; in gabbia di sé stesso come l’ubriaco – Ti sfido, il sangue nuovo deve risalire – Sfidami, tu per essere ti sfido, abbi sangue, abbi ormoni. Voglio sfuggire al corso, dove scende. Raccogli la primavera in stretto boccio. Dimmi, rifuggi, ribalta il segno – Sfuggi e ritorna, così ti invito! – Qui impacchettata, dammi la vita, hai concentrato ogni forza nella vita – Dove sei tu, nuovo essere, dove percorri? A chi appartieni? Muovi le cose come ti piace – Ricevi l’essere nel cuore – Dove, mia primavera, stai nel fondo: oltre, oltre vai e non fermare. Vai oltre – Traccia – Forse di qua si esce e trova.
Di qui velocemente inseguo il sole. / Taccio di cose ambigue, cerco solo motivi – non coscienza, senza scòpi, con voce grave cantando – Troppe del mondo conteniamo le vie e se svolte a casaccio lo diciamo perso: e non so dove va – Gli esecutori hanno sguardo critico e distratto, ma pensano intensamente chi tu sia, chi è, si domanda e dove è / nel liquido mistero colle dita affondate nel miele / senza il giusto spazio – Dov’è, chi è, sussurra nell’orecchio prima di essere; forse per imitare, se mai un frammento fosse possibile / da sviluppare in un gioco simile ma diverso o anche totalmente imitare – Se sul suono ritmato la musica scende, è per fingere che sia già perentorio – Rispecchiando i deliri, tu mi abbracci, come fossi il bambino che rivede le angosce perché non sa, perché non sa chi è – Se il mondo si rialza, non ridargli stretta l’ansia di riprenderlo tutto non ti prenda – Sia trasparente il cuore come un tuo gioiello – È meglio stringer bene le sue falde, che non cada a collasso e sia finito il luogo. Aveva un gioiello nella teca del suo petto, che poteva reggere il mondo, risanarlo. Io non ammisi mai che era feroce vivere.
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