LIBRO 79
Rotola la testa innframmenti
Come uno sprofonda in fondo all’acqua verde, gli oggetti come cristalli molli, scende nella morte così vedendo / risale a un avido respiro – Clandestine cose contrabbandare i cibi e le bevande – Continuare a raccogliere i frammenti dell’universo, che appare inutile al raccoglitore – Ma dove, dove sei? Dove trabalzi l’una e l’altra cosa, combaciate – Perché volete vivere, sapete: non c’è solo utilità nello sguardo – Era venuto raccogliendo semi, più avanti segni forti, qualche miracolo che parli – L’abbiamo allontanato al silenzio anche tu, Lamberti, ad Oslo sei morto, con un bel cognome. Questi li porto fuori, li raduno, se ho capito la scrittura formale, ma quella aperta mi sfugge. Frammenti di cose molli non combaciano. Anche tu, Lamberti, a me significavi? – Non sospiravi d’essere, tornavi. Sulla neve nessuno si incammina. E così fece / se sai, e non sai, ricomporre i frammenti.
Frammenti di un dio luminoso si sparsero d’inverno. Era un colosso lucido e possente. Coll’inguine e la testa rotta in pezzi. Non vendette mai quel violino esploso, fatto di ottone. Anche il vento può rompersi in frammenti e le grandi cose si aprono e si scuciono. Così mi parve vita quel che era dolore: così, malgrado tutto, ho conosciuto un luogo non spezzato e rotto, dove le immagini, gremite, erano strette alle carni, e i corpi si muovevano come bisce quando l’uomo le strinse in un sacco. Perché sei scuro in volto oggi, a contrasto? Fu visto in una luce millenaria / dove non c’erano confini – Nella luce millenaria / un vento riflesso, una parola si attenua. Sei tu la voragine scarlatta? Spostata di un soffio dal mio passo? / Non c’è altro a venire – Il destino si dispone fluido, come un luogo a venire, mutevole, impreciso, che si sposta al mio passo. Sa di me quel che vuole: è leggero, sprofonda, non posso prevedere. Non posso stare in un nido se era una cosa lontana nel suo sole – Il tuo passo abbia una meta fuori dal destino / in lui comunque, devi precipitare.
Intricato e misterioso, più scendo e più salgo – Ancora gracile il re ed appiccicoso come un pulcino dopo i sogni. L’uovo è un luogo intero / s’era così scisso in mille parti, inerte, muso e senza luogo – Era un uovo spaccato, disturbato dal brusio, e l’onda di ciò che c’era, aveva avuto costrutto, ma non ricordava – Quello che era fermentato nell’essere ma non rientrava. Ti dissi: “Fammi!”. L’essere non era dietro l’angolo / non rinumerava ogni momento i suoi punti / ma proprio perché io ero non potevo contenere il tutto – Mio re, che fuggi – L’essere ti cerca, fermentando estraneo, se ossessivo e concepisco, non devo né adorare né biasimare. Devo perorare, constatare il sacro e l’impossibile dominio, ed allertare: questo è più sacro, eppure non negli schemi dell’uomo, eppure non nei confini accertare dove sia la morte, dove si sia aperta, dove si sia aperta e infranta – Conoscendo, così, avremo spazio quanto ne basta, come al gatto basta il territorio bene conosciuto e le sue prede, così che sia ancora quello che era prima che fosse. Se vita si riassume va a sparire – Vita si espande di parole – Vita ripossiede quello che è perso, senza gerarchia – Ti giuro che farò del bene – Dammi un tocco – Tu, femmina, un sussurro nell’orecchio come un confidente – Esiste se è sparsa, riprodotta, lo so, vive di vita – Ma qualcuna ombrosa, ultima, nel nascosto ciglio, non lasciamo che imperatore stermini; ed Erode, ogni figlio di natura, progetto folle, voglio qui essere, sono la forza stanca del destino. Allora, connetti per un più sacro fare. Non ho visto il miracolo che c’era: dai esistenza tu che puoi all’inaudito. Il resto è noia tetra, gallo spiumato, colori vivi sparsi. Dai il costrutto a chi dove si sfrangia. Era rigirata sulla pancia tutta la mia anima quel giorno – Chi si ciba del frutto azzarda molto – Era il frutto bello e succoso, era il peccato originale, era l’incesto – Era solo il timore di colpa, ma era l’unica via del sacro – Conoscenza per il sacro stesso: cercare di essere non può essere colpa, dopo che si esiste. Prendere un piacere non può essere contronatura – Se esplorando il divino, come qualcuno sa, sa per decreto dell’imperatore, senza averlo esplorato, lo ha scalzato, sopraffatto dalla potenza sparsa, unico demonio, mantengo dignità, se non il senno – L’imperatore dice: io mi nascondo. L’imperatore della terra si discosti – Qui coltiviamo i frutti nell’orto, ora nascosto. Il re si piegò sulla scienza sacra, toccò le religioni; voleva sapere, non credere (ho preso per paura la sua via). Cosa mi è valso il frutto integro più volte frequentato? Dall’albero di fico nella calura, preso a grandi braccia, pendeva la tentazione, carico del dolciume ai mossi insetti. Dal dolciume insensato il poro pervasivo di papille dolciastre – Mio mistero trasverso, mio mistero riverso – Non ho visto altro scosceso incanto, margine pallido al vero: essere così presso non sapevo essere così vorace, e sentivo un canto, di trasverso mistero. Tutto questo fresco moto di ruscello, erbe che piegano la libellula ardita, l’ape, la mosca – Allora non sapevo domandare – La domanda era statica, diretta, riconosceva risposte, se fossero date. Allora dietro una foglia stava la pelugine chiara – Allora il dolciume del frutto, la pera marcia a terra dove sibilava la biscia – Marciva il tremendo ronzio, marciva tutta la frutta matura, abbandonata; come, non munta la vacca aspettava le mani a massaggiare, che sprizzava latte tintinnante – Allora le domande non c’erano sui fossi o la domanda stava, come la lunga incognita di quel calore sordo, che costantemente puzzava dalla morte. Allora, all’albero sovraccarico le vespe spingevano il miracolo un altro po’, verso il compimento, lo svolgimento era la più pallida parte della vita, dove poi si è gremita. Ma ora si apre e stende come un bel lenzuolo e la quaestio è sovrana in ogni forma. Ma quanto ancora sentire e potere. Vogliamo ancora peccare. Quel peccato non abbiamo saputo in verità. La vera storia è altra – Tutti i morti che immagino sospesi, cosa sanno o hanno saputo. Se ci fosse intenzione di risposta, perché non è nata / e il ragno costruiva prospettive. Non chiedevo al mondo altro che stare.
Come il falco s’annida sulle vette, per vedere tengo la distanza dalle cose, sicuro, per guardare, ma tutte sono prede, come conigli. Ogni attimo vedendo e poi pensando, tengo stretta la vita ad ogni cosa – Anche ad un muro, anche ad una solida parete. Non c’è ancora che tiene a questo fondo ed il sole non si stinga per essere cosa. Questa è la difficoltà, non ha risalto. Rive verranno o diranno delle cose e trasparente, clandestino, povero, negletto, sfuggito così dall’essere, imprevisto – Altro non era che una macchina astuta. Ora fa capriole là dove non è richiesto, ora si contorce, allontanato dalla sua stessa pace, dalla diversità auto-generata. Ma lo strappo era previsto, insieme a quelle cose. Quello che vive, quello che impara a vivere – Ma non ancora impara a non morire. Quello che evolve fra le idee. Qualcuna è predatrice, altra obbedisce – Meglio esiste quello che armonizza, non la sopraffazione, proliferando.
Se si dipana assai la tresca che la vita compone; penso l’obbligo e l’insidia, la volontà precoce. Il dolce stimolo qui giungeva, arrivare indifferenti al luogo, salvo non sia nido e dimora – Non contengo infamia, non più infamia di sangue esposto e raggrumato precipitando, vomitando, a te si dipanava e sfilacciava, perché non possedevi il destino e pensavi che l’essere fosse sé stesso. Non sapevi a chi passare la forma che risiede nella sua natura, ed espansa e accartocciata – Tomorrow living – Acceptable compromise – Frequentava donne bellissime prive di pudore – Si compiaceva di bugie, ma non vi dava alcun respiro, il mio cuore veniva navigando in quello spazio, era uno spazio aperto. Io ho passato il valico pressappoco, appresso sono slittato di scene e di moine. Come un semplice stato, nello spazio finale preso dimenticando / e ampio / sei tu a misura di vecchiaia: dodici steli hai raggiunto, come dodici gocce qui espanso, poroso. Voglio sfilare la pelle del mondo, voglio scorticare compatte bugie – Nella costellazione fragile del vento – Tam, tam, tam, tam – Privo di sospiri è il cielo alto, nebuloso, increscioso, di molte sponde, di carretti, misurato dai pesci che si aggirano nella terra cinese a Taiwan, al confine di vetro, prima che ben composti li assaggi. Dal confine di vetro non protetti dal suo sipario, e se scendi nella notte ad osservare dalle stanze sbilenche se accendi la luce si rimuove ciò che era forse fermo o si rallenta, ciò che aveva moto segnato ritorna qui alla compattezza del sogno dove le cose si mischiano avventurose – Torna alla giovinezza gravida, torna al bordo tetraedrico, all’icosaedro, e che sceglieva arrogante la sua faccia, e determinando il destino, scegliendo il destino, non so se sia aperto, se ci sia. Il nuovo tenore viene, si rapprende – Dove sei elfo che richiami possesso? – Dove Venere infame, che spinge a guerre? Dove percorsi austeri e fiumi, che l’azzurro non tiene di gioventù? Sono il solo costruire la solitudine da cui la vecchia anima muta e rigenera. In gioventù si raddensa la forma delle forme apprese, non c’è niente da buttare, e perché semplificare? Si rigenerano qui i giochi dell’elfo che il suo puro piacere elargisce come amore: non come Venere che ha doppio fine e attrae per generare; non vuole puro piacere / concede attentamente e dosa a misura per sedurre, ma cautamente, e perché mai sprecarsi, dissiparsi e trattenere il filo che alle cose si aggiunge e le rintela: costruisce il violento rivenire, il filosofo vede nel vivo desiderio il suo tenore – Ho un desiderio strano, sopito nella terra, azzardato, concesso – Cosa ho perso, da dipanare? Così quel che ci ha spinto nel mondo si mantiene e stringe che lo decreta, costringe eppure muove. Così per essere, ci siamo concessi, come fossimo schiavi e ci riconcediamo, lasciati vuoti dalla vecchiaia, non trovo niente; così non trovo niente – La donna allatta, si gonfia a gravidanza – Tenta il gioco – E là si chiude il cerchio, annoda l’anello della maglia – E poi, che fare? Intrappolati allora per pensare, forse è il contrasto, non c’è forza oltre, di qua, invece, beviamo forza d’essere come da un vino – Torna dunque dove si costruiscono i fatti.
Non puoi possedere il vento se lo aspiri e lo risputi. Solo una parte di esso si divide e ritorna. Siamo l’essere sì, che vi appartiene: non per un attimo possiamo rinunciare; cresciuti nel giardino dalle mille forme. Seguendo il ritorno, il gracidare di galline per le plaghe, pezze residue della neve, non trovo nulla per strada, neanche un dio / Tu che non appartieni a questa terra, hai messo in fuga, dittatore, i nostri scopi, impedito paure, e quindi felici attraversiamo la terra – Dittatore fatto di pasta e di pinoli – Ciò non mi è appartenuto: io non l’ho visto. I boschi son disfatti, i campi a righe alterne hanno pettinato la terra perché un seme prevalga, come il nostro – Di notte vengono le prostitute. Non l’ho fatto siglare in ogni foglio per il verso che attraversa le righe e sulla busta arancione sormontando il piccolo gradino o coi sigilli – Piccole garanzie che nulla sparisce e che non è mai successo che una parola sfuggisse dalla busta. Ma è successo che il testamento, per miracolo, fosse diverso – Siamo cresciuti nel giardino, come fiori. Di essi è stata fatta serra, le rose diritte e alte come stecchi, districata la giungla. Appartenevo al giardino. Lascia che il fango dei grandi fiumi d’inverno lo invada. Poi torneremo a seminare e raccogliere. A quelle luci, il duomo di trine. – Dimmi cosa hai sentito, un appunto, teologia ripassando– Voglio il bene di questa terra, che non respira sotto lastre di asfalto. Non c’è dipinto giallo del sole, mosso dall’arco alla parete, che faccia allegria, che dica vita. Intorno a quel nucleo sono certo che si muovevano le stelle – Ma qui non vedo che gli ultimi domestici animali deformati da forme per lo sfizio – Il re possiede nelle biblioteche libri maestri e libri-corollario. Le assicurazioni compensano ogni perdita, anche l’unicità. Non voglio che l’uomo si ritiri nella melma – Ma ci sarà un’idea da portare come sole, una sola per uomo, che si possa consegnare? Di tanti sforzi, di tanti dignitari del regno e guerre giuste e guerre sante e pace universale che divori la crosta del pianeta. Quell’angolo dell’acqua che ne dà la forza – Andiamo, andiamo, cerca e contieni l’angolo che la rivolta, senza voltarti, era piazzata al centro della vita: era una bolla, senza spazio. Se uno spazio è vuoto si può descrivere in un soffio e quasi non esiste. So che la mente insegue e desidera lo spazio: non c’è mente nella densità.
Ogni gradino io sono, io sono qui incatenato – Risalta ad ogni passo l’altezza del rimanente ma anche / la mia esistenza langue, si trova e la sparpaglia. Strade a nesso altro è scisso / Tu che prosegui lungo il filo rotto, che sai misura di pulsioni. Il cuore non è intero ma prosegui. Cosa c’è allora là, vediamo, alla fine di quel cavo. Tu anche ti rivesti di esistenza. Le tue rughe sembrano ferite e le righe incise nelle mani, sulle mani. Tu che vivi meglio di me, con più coscienza, e tu che hai tutto il corredo delle azioni, che so pregno hai succhiato l’esistenza come un pallone. Ti ho visto rotolare sulle scale, pieno di belle intenzioni, ma, senza coscienza.
Ci sono cose che il destino non dice – Uomini senza destino e senza storia – Non infelici, per niente – Prese per i curricola la strada e lo rimarginò dove aggrediva, perse sostanza, come gli dei e le belve. Non c’è destino fra le sabbie incolte, non c’è destino fra gli schiavi, il segnale talvolta, protetto dall’armistizio universale. Non ritorcere troppo il turbine che diventi furioso, prendi il dolore del sole, quando brucia e soffia, se il vento non segue traccia. Se da ciò che sei escluso vieni – Vagando per il mare, vivendo di pesce, così per abbondanza avrò l’eternità. Il destino non dice dove si toglie, dove se ne priva, di un dio, sperduto, ingiusto e superfluo, assente per chiunque, assente per il tutto, senza pace ma avversari; ma privo, senza destino se così lo guarda – Era un’onda vagante fra le onde; confuso ad ombre d’acqua. Per quel che sia mosso e rimosso dalle mille ombre del mare. Scudo forato davvero dai colpi del vento – Penetrato come danno di battaglia dal resto dell’assenza – Ad ogni inclinazione vedere stesse onde ogni giorno, ogni secondo, che migra sulla cresta – Dissolvendo l’uomo, e la metà del mare non possiede ritorno nell’alto silenzio e altissima luna mi porta, e altissima stendeva sul mare e amava e forava molte di quelle onde. Da dove sono sceso? – Ero sicuro che il sole strisciasse contro il muro e la realtà fosse meraviglia presa al volo nella sua costruzione – Messa sull’onda, giorno che congiunge a notte le assenze come non fosse se essere che un ripetuto scherzo, dovuto ai sogni, alla stanchezza, alla verità che si addolcisce e non accetta. Il re è sfuggito al vento, ma non basta – Ma dove sei, dove scendi, dalla natura ed altissima luna? Dov’è la cosa che percorri in dolce miele? Siete voi i consapevoli numi, i tesori che mi abbracciano e circondano. Siete voi nella liquida linea che, continua, dipana e srotola intorno come emergenza dei petali tra cose. Più in là ancora raduno ultime forze, lisci sentimenti e guardo – Più in là amo e conosco chi è scomparso, e sorgendo e accarezzando. E così venni vicino al re, gli sedetti accanto e piansi perché la vita non conteneva più dolore – Ma non fermarti qui. Il re non vedeva persone irreali. Io non sono più in tempo per ghermire immagini che scendono nella scala di luna non abbastanza giovane per rifare percorsi fluidi nel mare – Troppo essere per vedere lacrime di un fantoccio – Sono sceso qui a fianco non vedendo, e quando i sensi scendono spuntano dalle ombre anime; sorgono chinate, come da angoli o da boschi appaiono un attimo e scompaiono; umili, remissive, scolorite, senza più gloria, sempre momentanee, trasversali come bolle quando scende l’anima naufragando, quando sta lì. Ondeggiando con un peso leggero, lui cercò di prendere il mio perché gli piaceva il sapore morbido e carnale: io volevo il pensiero che permettesse ai tempi di affiorare e di durare: pensiero di forme, pensiero nascosto – Non ero re di nulla e il re era nulla – Sappi che il grano matura anni prima, quando è concepito, quando la mente lo vede ondeggiante e le setole molli di rugiada e ragnatele di mille gocce ondulate fra steli appesi alla scala della luna, non c’è altra luce e nell’ondulato mare, dondolando in mezzo. What is perfection not another word.
Portami più in alto degli scuciti nessi, così come hai lasciato aperti / gli spiragli fra i miei pezzi / Così navigando, come una crosta d’argilla quando secca. Così terreno morto, nudo – Colla voce di tigre mi riflette per ripetermi, così aperto ma non era aperta l’apertura – E in un attimo fui donna – Delle donne prende viso, grazia e profumo – Si costruisce un uomo nella roccia, un uomo antico, forse una donna. Lo riconosco per il sole a strisce, lo riconosco per la luce giallina. Era lì perso, quasi inesistente, ma quando l’ombra si arrotonda e piega non si può riconoscere vivente. A noi non piace dare giudizi, su cosa sia piu’ vivo o mòrto – A noi piace solo essere, rinverdire – Che sia il guscio riaperto, la valva di vagina cui s’appoggia. Così, per essere la madre, la donna rifiorita che germoglia. Bring mother of those boys. Breve e senza tempo vidi vita colare da punti sparsi.
I do not give you my music. Vola di sangue alterno, vola di rotto scoglio, mente che non tace. Sostienimi dell’essere e del fatto, non quanto poco dura l’inverno, quanto poco la notte, a fianco all’assenza. Come batte la scure alla pianta, non mi posso allontanare; sarà presto reciso, col profumo di legno, col bianco inserto. A chi giova, a chi scende? – Quando ferita che si richiude rimargina l’evento. Per favore, non essere così spostato dall’evento – Ho una poltiglia in cuore come una nebbia; che si ghiaccia sovente sui profili – Spesso altalenando, spesso piatta. Dov’è quella regione che sia densa di cuspidi e profili sulla carta che non sembrino cotone, fatto di filo che imbeve; che libri e librerie vuole in bacheche che non sembrino ante vuotate / delle biblioteche in macero, delle parole perse come un fiore sfiorito e senza frutto. Perché qui non hai germinato? Perché il piacere non è valso a generare, perché non ci sono né spettri, né corpi, perché il margine si è dilatato. E non tiene il tessuto, tanto tentavo in buona e malafede, non tiene la tela di ipocrita bontà, di tranelli, così insisti a irretire o imbozzolare.
Ma quello gnomo, nascosto al planetario, lo gnomo lassù – Musica dipanata, opaca – Non basta la struttura per valicare la morte – Si ricrea altrove con le dita senili.
Dopo tanto che il vento si riflette come la nota si deflette e sfugge, non sai se permanere o svanire – Se semplificare, per vedere il dentro, o trascorrendo linee o spazi vuoti, riducendo a poco la nostra proporzione, conquistando coll’intelletto quella estranea. Altra che viva a sé, altra che pensi, o fiorire tutti i campi di mimosa, ed altri rami e fiori. Si risolse una luce, in quel momento, in quella complicata stagione la struttura svaniva, il tratto / diventava elementare e di tutti gli elementi decostruiti restituire il pezzo, il frammento, l’intenzione, sperimentando piccoli moti che riconoscono il centro della terra – Come hai ottenuto quel privilegio, come i tuoi avi? Colla guerra? Col sangue? La tortura, la colpa, se c’era è nascosta. Conosco costruzioni presunte: su quello che si sa, quello che non si sa; maledizioni sconosciute su cui si fonda il nostro destino / su cui si fonda e beve il nostro destino – Generando e generando elevare, anche se il re sia schiavo. Ognuno vuol essere sé stesso ed imperniarsi, quanto possibile. Il creatore crede di possedere ogni golem, la creatrice ogni bellezza – Non si può ammansire la vita / dimenticando / e così non è più se la disfioro. Non ha colpe chi è creato, ma uno stato, un fardello, una natura. E tolto questo e quello, riducendosi una cosa che non ha arcano, non certo colpe, e non ha matrice: chi genera non sa a quanti stadi di estraneità scende il percorso, cerca nell’esperimento il nodo ferreo, infecondo, elementare; cerca aldilà dell’essere l’estraneità. Ma quando la struttura si dipana, cosa per esso scopri? Scopri la prosecuzione che travolge: il tratto nel sole, nella guaina del cielo. Lo spettacolo assurdo della struttura che collassa e frana / nella sparizione se l’attimo mi tocca, istantaneo e sciocco – Di qui devo servire il servo che ho creato ma non esiste re senza servi o esseri servili – Quello che non scompone non è vero, quello che è vero è pregno, aperto, inconcepibile / il popolo non vuole conoscere, vuole una tecnica per farsi re, non vuole scienza, cerca di superare la coscienza, vuole liberarsi perché è giusto. Il re vuole stare, essere, e cerca imperatori con cui venga la pace universale – La regola regolante, il rostro d’oro. Re sdrucito – Chi ti stringe, ti impaglia, ti abbraccia? L’incenso scende a febbraio nella fontana. Ombre, ombre scomposte dal connubio del sole – Aria incensata che ribeve l’acqua nascosta e nera – Ombra, ombra sottratta, usa i riccioli del sole che si addensano salendo e mischiano di sostanze posticce, sali, colla natura dell’ombra, a costituire demoni dagli occhi di gufo. Per stupire chi ha denaro è nato il saltimbanco, è nata la fatica dell’abilità e della struttura, nasce la complessità remota del salire. Forse l’uomo è diverso: se è alto sia alto e non servile. Forse nasce il dubbio mutilato e sottratto. Coll’ombra salirò il rimestio del sole e risalire il rimestio del sole dove nessuno guarda e coll’ombra sgranare il puro raggio / contornare di cose l’infido. Se ero un servo non sapevo / Io non sapevo se l’uomo che nasce deve / comandare / io non sapevo se la musica nata a dispetto del suono, non sapevo se scendendo di misura una cosa cresce, l’altra sottrae – La nostra verità è pacifica, vuole solo che ciascuno viva, cercando dentro l’essere un ritrovo, perché l’uomo non deve / avere una funzione: servo agli altri ed a sé stesso – Troverò sgranando di sua ombra ogni essere che scende le sue ripe e il raggio intorbidito, così tutti nasceranno di mistero, perciò di scale; pensa, chi determina i moti, chi tiene la terra appesa. Lascio il guinzaglio, le redini e il mantello – Chi è più fiero, l’uno non abbia pace e rivenga a compilare i trattati, le pagine sospese / Conosco i corvi a lontano, i versi striduli quando rivogliono – Non è una competizione, descrivo il meglio e il peggio – Voglio che l’anima alta si diffonda: per essere non si abbassi – Ho creduto / di sapere l’insaputo, ho solo imparato la vita soltanto stando al sole.
Il cantante cieco / non vede la sua voce avere effetti, canta nel buio, di molian – For each piece, between us two. Dov’era lo specchio feroce che vedeva? Anzi: le parti complementari si compongono, una reale e una immaginaria. Così ricompongo il mosaico spezzato, essendo due – Nulla è accaduto, uno di noi possiede quello intero. Gli eventi spezzano le cose in una parte di memoria così che tutto si mischia in un intero corso, sanguinante, e l’altra parte per l’intero è ben lontana, quasi combacia qualche pezzetto che si trova vicino ed è forse un puzzle sbagliato – Troppo lontani si trovano ormai i pezzi e le memorie, ma se si trovassero non ci sarebbe niente e niente stato, intero nel liquido spessore. Spezziamo e cerchiamo memorie, e le infiliamo l’una nell’altra, così che cose e memorie si complementano e una incolla l’altra. E ben lontano è attorno il tutto nei frammenti, e che vale tornasse a impaginare? Originaria – Così cerca l’umanità sterilizzare – O riportare alla divina trasparenza – Qui dei frammenti accesi, luminose onde sul crinale del vasto mare di ossidiana. Cos’è la luce che si frammenta quando sei nel mare? / La memoria mi hai preso e l’hai portata in un luogo lontano. Nulla si scopre invano, può essere una via di noi vermi a nodi inaspettati. Mi ha scomposto le cose in due sistemi. Non è diviso, è misto quel che si vede – Una mensola, un appoggio, tutto lì, al nostro capezzale. Per il viaggio interrotto la nostra breve paura, come un tuffo. Ladra era stata della mia paura. Quello che tu credi riversare nel mare, affiora nella bonaccia, oleoso, e ti circonda – Quello che alla vista tutto si confonde, fra l’impatto e il tuffo. Ho bevuto qui e là sempre quell’acqua, quale torbida e immersa. Non sono io a toglierti lo spazio né l’aria; sono gradini di una scala – Tuffandoti a testa in giù come la gallina cui si taglia la giugulare e corde per guidare. Drena il sangue colando, dalla gola e dal cuore. Gli diede cibo e poi gli dà la morte – Credo tu sappia e, se non sai, lo dico – Dico di foreste che non vedono e non guardano, mari miti e profondi, era simile. Non hai visto le colpe trasudare come petrolio? Dagli i semi a mangiare gli avidi interstizi della terra. Quel seme sempre piccolo e cosparso. Il suo futuro dove è stato? Chi è stato? Chi si sorprende? Il giorno in cui la vita si raggrinza, come una spugna strizzata di forza / spremuto fuori viene un frutto amaro. Era un acido rigurgito di cose, senza volontà rimasta / un rapido segnale che le cose raggrinza, senza la foglia, era sceso di traverso, come spesso il vento una cascata luccicante. Così la luce si coagula nel sole e si rapprende – Io non posso essere che un residuo di fuoco, pressappoco brace, pressappoco un margine di fuoco. Però se questo viaggio attende giudizio, sono un calore imprigionato, sospeso in aria – Al di là del sole, che raggruma su questa piazza / Ogni cosa che ricordo esiste / se supera la morte / se la contiene come trappola il topo e il cosmo si impossessa come il solo padrone. Re di mia vita, guardando e spiando? / Vieni caldo o freddo come un morto? – Intanto si raggruma nei soli il calore primario e qui dove viaggio nella fredda acqua, non c’è che un mitilo riflesso. Eppure so che un sole che riscalda, fu culla di ogni cosa e di ogni pensiero, di ogni coscienza, figlio del frutto quando è moro, / quando è indorato e caldo / Perciò percorri il sole preso dal melograno aspro. Perciò percorri il tempo per irraggiare i mondi che fioriscono sospesi a biglie d’oro. E tieni la mente a freno, non correre troppo. Non si fonda col cielo e non abbia più risalto.
I miei avi mi chiamano – Tiene l’intestino del re la memoria di quel che digerisce, prende dal seme, prende dal contadino – I miei avi mi chiamano a riscontro. Say is that the muses were not descending deep.
Scostata per un poco la coperta, gli avi si raccolsero lì intorno / erano gli avi, rossastri in viso / erano gli abitanti dell’universo, con berretti aguzzi, occhi a guardarmi, ed a dire: sveglia! Se le bianche coperte del mare si aggiungono. Come se da una discesa precipitassero, contro, contro, contro – Non è mai troppo il denaro o un dio dagli spigoli del cosmo stavano a guardare, stavano in quest’isola in moto – Nessuno ti contempla e ti raccoglie, per mute ossa da qualche moto che ti lava il vento. Come cosa inanimata può appassire? – O resisto, contro la discesa delle onde per il vasto mare. Ma non scendo, risalgo, brucio assieme al re che le governa. Veloce, come lo spirito nel tempo: minuscola strage, strage d’insetti e schiume, insetti che ci guardano pregando / Ci sono forti e salienti con altri, diretti e lisci, ma di altro so che sia perso, e viene a macchie, sono sicuramente venuto ad una cosa, sono sicuramente acceso, ad una cosa inviata e morta, ad un rivolo di sangue / alla roba superflua, ai segni di bellezza – Carico qui le messi nel granaio e lo trasporto di beccheggio e di tonfo. Mi sono impadronito della direzione e la mantengo. Di qualcuno si perde il seme e il collo. Di qualcuno beccheggia ed alza il tonfo – Non c’è onda che venga perché altra / la libidine infuria sui possessi. Non è qui altra sponda che s’arrivi delle molte menti che si sguarda. Dolore, per non sapere, non vedere nell’impasto argenteo di chiarore che dipana stelle, tutti spostandosi a cercare, ma di poco è concesso. A nessuno viene il premio: remunerati sono gli dei? – Tutti s’avvinghiano al remo ed alla barca, incide dal cielo luce che discende per traverso. Aveva un passo malfatto, di una storta progenie, non si corresse mai, non lo corresse.
Nel pericolo che tutto ciò scompaia.
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