LIBRO 86
I dignitari muovono le carte
Mi spostai dove era già nata la luna – Quando d’argento e d’oro persa nel cielo, sono da loro vaso e non ho tregua. E nel mezzo del sogno trovò acqua, la bevve, scese per incontrare gli spiriti della notte, per sorprenderli, incontrarli, nel momento in cui vegliano.
Durante la notte dorata – Quanto penetra l’ombra la mattina e suscita aromi di erbe – Che odiano gli uccelli e il loro canto, che disturbano la musica / umana – Nessuno può osare cantare nel mio regno, pizzicare corde di chitarra, battere tamburi, prima che il re gestisca le sue carte. Giallo percorso del cielo, non infliggermi pene premature; il giorno si divide a chi appartiene, e a chi appartiene canta, quel confine diviso dov’è il canto che si alza – Ero felice di quel vento che si sveglia, come al cielo il sole, avvolge vesti intorno alla nudità che si rialza pura, destrorsa. Veste, dove s’appoggia? – A una parola, a un sussurro riappaiano personaggi che non amo – L’ombra cade nella risaia e si perde – Come descrivere la bellezza di chi ami: non appare nulla a loro – Qui procedendo, che la vita si spenga – Mostrando quanto può la vita essere amata, eppure la depongono – Eppure le stelle di animali sono perse – Le ninfe ardenti si spogliano alla luce – Il mattino si china sulle cose, ne dà ombre. Alcune nette, alcune senza pace, alcune morbide come un vestito. Congiungo due cose in una colla mia luna dove sono i venti che reclinano
all’est – Dov’è la luna che splendeva e che tramonta? Lo sgretolarsi del cemento? Ai principi la vita si consuma, non in una, nelle dinastie. E giocando nel mare, là accoppiando e ridendo le genealogie si ristabiliscono agli anni, gli esseri si avvicinano nel mare – Fuori dalla superficie sguscia in un tuffo, rarefatta, ridotta, genealogia del mare. Qui rimase ad osservare. Era più piatto dove / e più liscio e luminoso, lamina che distingue, e appoggia su questo mondo un’ombra di luce sconosciuta la mattina. Come erano le stelle, trascinato nel liquido abisso dal pensiero. Non amo le righe, i limiti, i confini, qui li cancello nella foschia che svapora ed al sole attiene. Non c’è più saldo viaggio, non più fermo viaggio, che nel liquido immenso; non più grande erotismo che accoppiarsi al vasto spazio. Latte in cielo sparge e gode i seni della madre – Il sole che t’abbraccia e che ti monda, il cielo che contiene come un uovo, sono pronte alle generazioni, come amore, che più in là ti attrae e più vicino; come sciame di api che riviene e non ha bordi, ma al centro ha la regina; l’amore che si staglia e che si stende – Amore resta sparso per le cose. Quello che già vede e quello che non vede. Dammi il pallido tuo cuore sconosciuto, che sta al di là, che vive per le stelle. Sparso, pulsanti di pianeti, luoghi supremi.
Questa volta s’abbranca come un corvo, prepara seguito di vita, minuziosamente; consegnami altro mandato, che non sia solo guardare dall’alone laggiù fermo e striato – È stanco del mio stare. Sai cos’è questo, e questo: sono forme viventi, anzi momenti, anzi poche e disperse, eppur minori, che possono prodursi intatte, ad una ad una ancora, innamorarsi – Ora attendono il giudizio, il nostro giudizio, il verdetto del popolo adirato sull’utilità. Senza un giudice che conosca la storia e le mansioni, un dignitario che abbia l’affetto per la nazione. A loro non piace la minuziosa diversità, perché li offende. E i canti stanno stretti nei boschi e i suoni intimiditi dei grilli e il sole si fa fosco, ambrato. A loro piace che si urli sfacelo. Ma nessun silenzio là si provi; come nella cascata arrogante mille voci. Acute e gravi e imprigionate – Le mille voci sostituiscono gli insetti ronzanti, l’acqua delle risaie ferme – Non può decidere, se sull’altro, perché è altro, così l’unico criterio è che sia uguale a una densa moda – E se lontano, solo, sospeso, i cani avvertono, solo alla campagna, solo allo sbando. Questo gioco è mortale, il re non lo dirige. Il re guarda il chiarore giallo, quando germina a filo della terra – Il re conosce i silenzi, il re attende l’animale nel silenzio – Non entra nella festa, nella città vociante vedi questo: è scomparso, con un libro che lo sfoglia, in caselle stanno fotografie a catalogo – Riporta la sola forma che comunemente vede – Grande, insistente, è quell’uccello dell’allarme pigolante. Non li vedi, in tutta la metamorfosi, nella rigenerazione, nell’amore – Tutto si è ormai disfatto, il dolce amore che conduceva gigli profumati – Organizza così di sopravvivere come un vecchio, che non saprà di quanto. Insisti tu, torre e campana, fischio e vessillo, tromba di paggio a controllare il terreno, e lo / estendi – Sono ora di sabbia i campi che coltivi – Giudizi e graduatorie; perché mi vendi? Mi vendi sul mercato del bestiame insieme all’asino che governo. Mi vendi come a me fosse vietato di comandarti, come se crescessi in un campo, erba marcia; fissato lì dove mi metti, lì rimango, costretto e irradicato. Hai ben fatto salumi alle grida del porco, hai ben ritratto cose che avevano del costo – Il principe gagliardo si incammina con il fluido del sangue tutto fiero, col passo mosso alla primavera come una goccia che, sbattuta, protende i suoi lobi, ma non divide (endecasillabo, ma non suona; in mezzo ad altro ritmo sembra piano). Allora quelli che sentenziano di colpe e di fastidi – Che le persone debbano rendere come le spighe livellate in un campo. Da qui, dall’alto della torre, assumo sotto l’ombra delle prime foglie, assumo per il fresco vento viaggiante, assumo per il cieco stormire; ma non so che messaggeri udite. Il fatto è aperto, le tegole disposte per gli uccelletti nuovi – Così io mi sbilancio a vendicar per loro. Quanto vai lontano qui nel mare? Quanto alta ondeggia là quello maestro, a reinsegnare vengo la traccia del futuro se traccia del sentiero qui non vedo – Vado più lontano, alle curve del fiume, vado dove si piega l’acqua e si rigira, vado dove il falso è finalmente vero, vado agli avi protetti dai tumuli di terra e le radici. Su che cosa si regge quell’asse orizzontale se non c’è il verticale che gli fa struttura, conficcato per terra come lo scettro, e al cielo – Conficcato a terra è il verticale, di lì si erge. Da che parte possiamo proseguire? Se il vasto mare è uguale in tutti i sensi, se il sole si riorienta nel suo giorno e se la notte è immensa – Sempre naviga dritto se non c’è altro schema, sempre – A oriente od occidente: sempre sulla terra combaciava al punto opposto, almeno tanto lo possedette come un uovo, che lo infranse – Il quinto Carlo capì che nei possedimenti è sempre notte, se il re ingrandisce troppo il suo potere ma poi battaglie e navi – Quando scopre, lo consegna senza il sacro; non c’è più nell’oggetto la vita – Ma sai cosa ho sentito, cosa ho amato, in un ritratto credi ritrovare? Gli idoli sono riuniti nei mercati, come oggetti o uova pasticciate. Mi spingo oltre le nebbie e le mosche, non per trovar possesso. Questo secondo giro del pianeta è un po’ diverso – Reggo come l’albero maestro fermo allo scafo, come il carpentiere volle oscillante al mare, al grande scheletro che vidi, fece e preparò / come volli, a doppio rinforzato, di sano rovere o di carbonio, alato nella pancia dello scheletro stormire i venti umidi di terra quando faceva gioco con perfetta pialla faceva forza e rumore. Contro i venti attesi era la prima forza ad inchiodare il vento. Fa parte questo del viaggio e del viaggiare; il preciso sestante, ma senza carte e mappe, dove è ampio, bianco od azzurrino, dove solo reticoli tracciati che non contengono niente e credi mare ampio dove è terra ed immagini terra, ma è ancora mare di incertezza e poi dopo ti avrò immolato alla causa, terra feconda. Gentili, cariche di sorrisi, di averti, non di tenerti: lo scopo era depredare, non era nascosto, e portare la croce, piantarla sulla collina a protezione dei loro avi dispersi come anime vaganti, senza verità, senza salvezza. Libertà ai più folti era lasciata come è facile pensare sia agevole accordo – Le ragazze saranno lì a farvi festa con semplici perizoma e lunghi capelli mai tagliati, annodati o sciolti – Resistete soldati, compagni, alla speranza! Alla speranza e al soldo d’oro – Così sono gli uomini e tutti i loro amici – Solo avanzare, spogliare, possedere, predicare, non soltanto guardare come fa il re dal poggio il villaggio fiorente, i maialini. Mi sembra che la vita rinasca intorno a me come in un gioco – Dove s’è posata, dove s’era tolta, dalla stessa finestra, dove mi vedeva vivere. Posso lasciare il tratto, posso lasciarlo, ma nulla mi solleva d’esser io.
Prima che gli uccelli cantino alla vita e il sole si disimpigli, quanto sa fare, prima che un dio mi possa benedire e che una dea mi abbracci, dove più fra le nubi densa la luce, lì si inchina la notte, cerca possesso alle sabbiose vie / nell’aria che accarezza – Io rivivo di questo: le erbe profumano, l’usignolo rimarca gli ottonari – Nella cuspide di terra che si ficca, il silenzio si allarga e guarda attento da ogni manto di foglie, timido dio tutto, come la luna traslucente dice che sono ma non chi è. Il silenzio ripercorre il suo capriccio. E così attesi, come l’uomo attende. E il sole si ricopre, si frantuma, perché di nuovo tace; perché non sa? Forse un re avanza – E l’uomo fuori dal bosco, con minaccia ferma portava la sua civiltà nella memoria abile a trovare fermo giudizio. Nella cuspide del vento dove i fossi stretti, tutta la civiltà ritempra e guarda – Trovò l’uovo colorato con graffi di parole e segni d’oro – Quando il vento si leva così presto e agita foglioline col dorso d’argento che annuncia che una pioggia si raccoglie, come luci si agitano le scintille – Forse vedi avanza il re per quel silenzio, misterioso, invisibile – Cos’ha risposto quella civiltà, tu non capisci – Non puoi dire, ma ha sostituito gli dei su quei dipinti – Tu pensi agli dei sparsi nei giardini, di marmo bianco o solo di gesso, privi dei miserabili vestiti. Non guardare solo il bello che ti inganna, tolto il significato guardi come il manubrio sia intarsiato, tu guardi come i tempi siano eretti. Il re, quando impera non uccide, ma sposta pedine sugli scacchi. Molto lontano il sangue si raggruma, il fuoco si riespande – O nostra dama che tu sei bruciata, le tue vesti in un rogo sono corrotte, sono nere le vesti, i gioielli lasciati spogli ed anneriti – I diamanti stanno nella terra e li nasconde – La dama corre via nuda, quanto più bella, degli orpelli minuziosi e decorati – Comparata alla chiesa la Madonna, ma il parco di delizie lo sguardo cammina – Quando l’espansione trionfava sulle terre nuove e i cacciatori circondavano il cinghiale che si rivolgeva. Oggi alla nuvola che mi ricopre, vengo qui, sono qui che ti aspetto, tu che mi sfuggi nella complessità del vero e velocemente si intorbidano le acque e si aggiungono. Le società si infrangono l’un l’altra. Tu che qui vuoi conservare la pace, tu che vieni qui contrastando e stai qui in ascolto, non credere, senti il complesso suono che producono i passi sulla terra dei popoli che sul ghiaione muovono le macchine – Non è così semplice ascoltare, puniscimi diversamente con frustate; non con la bassa mediocrità, la semplice risposta, la pubblicità. È partito all’alba, è tornato con ostriche e funghi strani, eduli alcuni – Vicino agli edifici corre il vento. Imprigionata, la gente crede di essere informata – I suoi dignitari muovono le carte, ma non c’è a capo il dittatore: è scappato con parte del bottino – Il trono è vuoto, bene! Il popolo esulta – Il re è nudo e sta sulla spiaggia – Il re è assente. Non negli scricchi del mobilio, non nei soffitti che si tendono, non ci sono lì, non negli uragani, non ci sono spirito lì, non al campanello del tempo, all’orologio scarico, non alle pietre cariche che scoppiano – Solo è un rapporto sulla vita, di uno spirito che si riempie e si svuota, come in un respiro o un sacco; non è la storia, non è la calunnia, non sa di lusinga, non è quel che avete già visto, è altro ancora, è come il miele delle api, mangia nettare e vola – Ed i batteri lasciarono il morto – Altri morirono essi stessi, quelli che stavano nascosti proliferarono – Io riporto la vita perché non sa nulla di sé stesso. E avanza come un fronte di soldati stuprando e facendo razzia – Così il seme si sparge, ma non ha memoria di quel che accadde. Sente il dolore di adesso né d’altri e quelli che erano e di altri – Non ho altro mestiere che essere e ricordare. Non è la storia, non la chiacchiera, il piacere ed il sorriso – Non spostarmi di qua, ho molto ancora. Dove la mente si infrange nelle cose, dove la mente acuta spunta i suoi spilli e le lance di guerra riporto dal bello spirito che vede e dallo spirito stesso – Rimarco la vita – E per gli sparsi colli – È presente nell’essere ogni cosa, ogni cosa raccolgo e colgo – Tutto staccato, mai distaccato e ricompreso, tutto staccato a me. Io rimarco la vita, solo la vita mi riguarda, e in lei non ci sono strofe morte – L’incompiuto inviluppo si rimesta ed io ero lì a vegliare – Rimarcando la gioia ed il dolore, la relazione del viaggio non è storia e non è romanzo – La vita ti circonda e ti interessa, ci circonda ed interessa. Re, per una volta attento a quel che dici – Raccogli all’inguine del mondo la sostanza densa / allarga ed amplia le cose, che di tutte sia pieno. Di quelle poche cose che hanno risalto nel flusso curvo. Ma tieni tutte come possesso nella sua vita disciolte, anche minute perché non sono esse (loro) che riscontra, ma una relazione.
Luce si riforma come un gioco di pennelli / ad altra arte spinge se ne hai una / così ho visto scosceso, mio orizzonte, acido, acuto, taglio al seguire ed al ritorno era come un giubilo di vento, che dice: no, non fare – / Se avessi un’arte, una pozione, se il dopo fosse qui, ricco e infinito; vengo a trovarti là nella tua pioggia, per lavarti già lontana. Sorretti al tuo dolce insulto, ridendo / vengo alla tua pioggia, muta e distante, vengo alla campagna ampia, dove non passano i soldati / dove batte e refluisce il suono / scendi fata colle vesti velate e i canti più nitidi dei riflessi – No, questo trasporto è pesante e la barca pesa. Qualcosa dovremmo abbandonare al mare. Qualche diamante dovrebbe affondare – Ma non il bianco di quei fiori che continuano, non il suono dello scroscio, nascosto agli uomini e agli dei. Lì li ritrovo, serpente scissi e ramarro di colori dell’erba e luce e squame – Assordati dallo scroscio dove non appare fata o sirena, dove soltanto deperiscono le cose e la relazione si bagna del primo viaggio intorno all’universo – Dove protetti i pensieri, ma non le tracce, e i segni non sono permanenti, e sciacquavano coll’acqua e le venute non hanno di culla d’onda, dove si alza e solleva, non hanno spazio sufficiente alla riserva, dove il vento sorge gocce – Ciò che non è avvenuto ancora non avviene e vita interrompe dove è troppo. Altre fanno tutte le cose, stanno all’essere perplesse, qui col mandato: “vivi!” – Tutti fatti per essere ed esistere – Fatti per avere immagine e follia – Noto teatro – Le sue note sparse. Mòrto prima che facesse e dimostrasse – Scoprendo altro, negletto sé stesso, moltitudini d’acqua, crea – Noi, uno, tutto stupisce / e vedo un uomo al varco dove striscia troppo la barca e si incammina – Sfuggito per togliere peso, per la grande Russia / sono il tuo allievo / e non c’è altro spazio – Da me, mi voglio alzare, da quel sonno / sminuire le cose per ciascuna, farne una grande – Sono sicuro, le tue deboli luci non ti contengono – E non c’è nessuno dentro il riflesso, dentro la spaccata noce – Per frutto quella luce mi sazi e sento il sole chiuso entro la superficie oleosa – Vedevo stringersi quel poema in pagine accartocciate e bagnate e l’uomo cercare dove uomo non è – A questo spettacolo ammetti lo sgomento dell’uomo che cammina e che ritratta, di tutti gli animali bagnati sulla terra, dell’amore che un giorno rifiorisce fatto di sole. Dietro il grande sipario col pubblico che inneggia mi hai abbracciato / e sentisti la dolcezza dei pensieri, che si annodavano – Sotto la pioggia l’usignolo, e mi prendesti. Eravamo ormai oltre, ero lontano: il sole in una pozzanghera si infetta. Fosti nella mia scena quando non c’ero; così svelasti i pianti, svelasti il riso – Vi consegno, guardate, l’ordinata ciurmaglia, il mio disegno; ma non so dove lo vidi, dove le mie scarpe non tengono più la pioggia. Ma la mente forma un arco veleggiante e sento il mio cuore fiorire se il suo corpo riceve un fremito allo spazio, impossibile percorso – Ridi, buona attrice, non c’è nulla sul ponte e non c’è nessuno. Qui è l’appuntamento, tu lo sai, che non posso venire – Sarei venuto presto, un po’ correndo. L’universo medusa scuote le braccia, apre cancelli, cinge e rifeconda con spore della luce lentamente oscillando come nel maggio tiepido che s’accoppia fra le sue stesse braccia, regina dell’incesto, e io simile ti abbraccio da infiniti tempi, simile a te, senza sesso diverso – Dove pallide apparenze, evanescenti amebe, successive che fecondo mutante. Dal pensiero hai stritolato anche Notre-Dame, dal tempo ti ho visto mentre di sera là sbattevi le sferze infuocate alla regina – Ingiusto, ingiusto! Volevi fecondare questa terra con violenza all’urlo umano – Dare un figlio saggio, ma con violenza non essendo amata, essendo sconosciuta dopo il fatto pianse. Dopo questo l’idea s’accascia, ritorna alle sue stelle; là ci aspetta allo sguardo, aspettando nostri figli ibridi e mutanti – Tu delizia di fata e voi dei, bestie terrene, aiutate il percorso nella nebbia di tutte quelle stelle – Fate e dei locali, protezioni alle guerre, di preghiera / faremo poi che altro, altro sia. Sei in trappola, sei intrappolato: tu non hai pensiero. Ci sono gocce fuori che rispondono, in quiete – Mio soppresso destino, dove convogli l’acqua e dove unisci quello che è da unire? Sbalzato fuori dove fiumi stanno al fianco, mossi e pescòsi – No a destra e a sinistra scorrevano nello stesso senso; per lo stesso mare. Conteneva molti dei, sparsi fra i fiumi, liberi e bradi. Moltitudini di foglie che non si potevano numerare; ma ero ancora uno che proseguiva, stava, e non aveva scampo. Meglio la libertà del paradiso – Allora un dio mi parlò: rifletti bene, disse. Era il varco insensato – Non potevano lasciarsi abbandonare. Vide due fiumi piatti e turbolenti – Sentì cantare nella notte l’uccello, che non aveva scopo nel cantare, ed era uno. Erano, colla canoa, facile strada alla foce, dove le direzioni prende l’acqua (sceglie). Al silenzio il luogo aveva il canto, dove nessuno è nessuno e tutti son vivi, a guardarsi l’un l’altro; e il dio sparisce, se non guardato – Senti, fuggi con me, immagine – Raccogli le divine cose ed esci: esci con me di te, esci contento e libero che il vento può restringere le gocce, non noi. Esci con me limpido e divino, che abbia forza come il sogno, ascoltando il silenzio – Non lasciarmi, non lasciarmi qua a morire – C’era un uovo in mezzo alla pianura, forse di struzzo, ma già istoriato con fatti e considerazioni – Avevo un piedistallo piccolo, un incavo per stare. Non vidi quale assoluto uccello ne nasceva, se al caldo fosse stato del sole, purché il sole sia fresco fra le foglie. Ma in una storia bieca / i fiumi si rivolgono a due mari, e mi sconcerta, come in un capogiro. Ho visto la terra sul perno, ho visto il buco dove cuociono i mattoni, profondo e rosso – Colla amarezza degli dei perduti, lascio le case e capanne, i frutti – Sono al centro del mondo che girava – Il dio scappa e traveste – Perché quel giorno e non un altro? – Posa l’arma che ti appesantisce – Vai nudo, vai nudo al di là – Decorato del sogno degli dei come puoi essere stato solo, benché quella fosse vita ed essere solo che scompaio? Come può la solitudine stare nel silenzio della notte ed essere per sempre – Come può essere adesso di cui sono? – Messa in scena universale, per il solo eccessiva – Sono rimasto ad aspettare, che si dissoci l’io dall’io – Spavento della nostra notte quieta. Succo della notte, succo del silenzio – Non c’è luce che lo possa spaccare in due parti, nessuno di noi è stato – Conviene che cerchi il riposo – Misura di misure; forse era nemico che dissipa, da me non scampo – Come se la notte non potesse rivelare chi sono, e questo è semplice ma non posso mai non essere, se sento – Da me non c’è scampo o fuga dal paradiso, dove dimora Dio e ci tiene divisi. Sangue, decorato delle storie dei predoni, forma dei contenuti, che gli auspici contrastano, profezie del percorso della mosca o di formica – Così come era tutto preparato, giorno per giorno, e poi il fuoco divampa come un ossesso.
Già così erano le cose. Il destino origliava la paura – Così tarde, smunte – Il destino riempiva le paure di azioni rivali – Già così allora era completa la vita – Oh! Il profumo dell’aria, riscontro delle cose; il giocoliere colla palla stupisce, si impegna a rimbalzarla e a trattenerla, ma non cambia le leggi del suo gioco – Ognuno è permanente, benché non sembri, ognuno è una cosa. Se si dissocia o sparisce, non c’è elemento che lo regga, se non un po’ di memoria che rimpianga. Dove vedo che l’acqua si inclina, acqua pendente, e tocca foglia, questa, e poi / quella – Lì vive imprigionato un grande male che regge tutto il tempo e poi risalta, che sopporta il tempo, tutto questo – Ogni goccia lo sa quanto lo scroscio perdura o nemmeno lo scroscio sa quanto la goccia dura – Circondami di braccia delicate, come fossi la foglia e fossi il fiore – Una luce che feconda, irrora, il profumo delle erbe anch’esso feconda provenendo da aria infetta. La luce che feconda si posa nel grembo, nell’uovo, posata sulla spiaggia, ad allegria potevo guardare; seppi che illuminava l’uovo, che lo fecondava il riflesso, presto veniva dal mare l’onda sciacquante – Come intenso e alterno risciacquava – Per l’infinita aria, che non stagna.
Prese la strada solita, il vento per i campi – Era un peso, ancora allegro, di ricostruire: e costruire quel che si può, come all’arena sciolta sabbia s’era scurita avvolta in lane calde la mattina, ma seguiva la notte – Una voragine s’era fatta in quell’amore, credeva di aver amato per volontà, per scelta, ma soltanto, inesorabile si ricostruiva un germe, un baco, una trasformazione – E non serve la vista, non serve il suono: esso non entra dove la luce è minore, dove l’udito nell’acqua è spento e sospeso, dove il cielo è rossore, dove globulare la prima dimensione e gli usignoli; quell’uno si divide per la prima volta ed ha due funzioni. E poi altre e quattro, in un puzzle terreno, arti e occhi si generano in un mostro – Acquatico e trasverso non sente la terra e la gravità – Chi fu che mi incise, fresco è il suono dell’acqua, il verdetto sta dentro: già si riconosce un’ombra sulla piatta risaia, già forse di lontano è un uomo, si vanta della forza, la conosce – Regina che hai fatto, di un bastardo il bastardo stai coltivando e là un profilo d’uomo privo di ombre – Fu il miglior re, non sapendo – Dove si spoglia qui, a lungo stai a guardare, dove si spoglia il mare, da ogni ragione e da ogni pensiero – Allora ancora riprovare se era la scelta ancora, ospitando l’abbraccio. Allora ancora ritornare all’atto primo dove si sa, se vuole o è voluta – Dove sceglie, se non ha scelto, e perciò ripete e prova e non ha dubbio di ritentare. Il dubbio, il galoppo via del cervo sopra la nebbia che risale e fugge. Il re cacciava qui – Era umida come un nettare in un fiore – Gioiva tutta la terra, respirarono grande ed in profondo. Tutto provava, ogni briciola di mondo, nella lunga attesa, cumulata di morte in morte, cumulata nell’ampia prigione (confinata) – Tutto gioiva, scendeva come acqua a rimbalzare, presa e rimbalzata come una farfalla che rimbalza nel suo sogno, nell’immaginaria sfera – Non si può uscire oltre l’immaginario – La sfera trasparente di membrane rigonfia e si fa uovo – In un uno che è due, che espande finché scoppia alla schiusa – Qualcuno mi disse: tu eri lì, lì, di lì esisti, eri già vivo e nato – Mostro di acqua, di genitori incerti nello spazio, nella bocca della farfalla e del pesce, nel nido di ragno, popolato di figli, nella seta nobile che ha generato il baco bianco, che il colore assume all’ultimo, per volare. Molte volte il disegno perso ho riprodotto, dove era stracciato l’ho cucito. Dentro al foglio cucivo con ago trasparente, con filo fine, due parti che non ho ritrovato, la prima divisione che non ho ritrovato e sono nell’armadio, nella cassapanca, speriamo non nel letamaio. Sulle spalliere tu mi mostri i fiori, sui tralicci – In questa gioia, che copre le colpe, esse emergono ai pensieri, che dice no, non c’entro – Cosa potevo? – La vendetta sia blanda, che non ravvivi la guerra – Non esagerare la tua vittoria / allora vedi il figlio, lo sorreggi alto – Quanto è complesso il nodo dell’amore, sta ingarbugliando colle nostre vite – Sì, qui t’abbraccio, qui risento il freddo: tutti vi ho abbandonato nel letame, il complesso nodo dell’amore non si fa uno e l’inutile nodo di parole, che le raccoglie sciolte e le imprigiona – All’esercito del re, a loro conviene. Non riusciva più le mosche ad impiccare, vecchio Domiziano, colla picca e con la piatta a schiacciare – Le mosche vivono, l’imperatore no – Vivono meglio senza, sono libere, svelte, seppur minori – Le tagliarono i capelli, non la gola, ed è stato saggio: non atto di pietà, ma prosecuzione – Invece mangia il tuo nemico e la sua testa, fino in fondo, rosa fino al cranio, perché anche dalla testa e specialmente, può risorgere vivo il suo pensiero – Emette membra, ho visto, qualche volta o se messa riversa, come a vaso emetta piante e non so se gioiose – / Era il vecchio Domiziano triste, che lo sterminio non poteva perpetrare – Ma sei sicuro, sei così sicuro oltre alle mosche, con ordini dal letto, tuo figlio possa essere dannoso? Io stesso sia dannoso che descrivo – Dannosa sia la donna che l’ha generato, re novantenne. E curioso sia il fatto che il furore stende e poi la pace, le parole piccole e meschini ronzano intorno, si posano a trovare farfalla in uno stelo, viva a chi ti da morte – Attendeva chiedessi ed io non chiesi – Mentre giudicavo e stracciavo poemi, decapitavo le parole. Vivo se vivi – Raccolto tra le cose in questo nido – L’essere non ha speranza eterna. La meta mi si slaccia dal volere: era una cosa persa e abbandonata, vagava nel lontano senza amore – Vivi perché io viva, se tanto la vita mi toglie al suo finire. Quanto più contano i merli ed è spaccato il mondo – Quanto più mi sussurri e toglie il vento ogni parola.
In questo gioco il sogno, il sogno di questo gioco, assurse il re, lo divise, come fosse un fendere e una spada – La decisione era sospesa, se di qui o di lì andasse – Appariva così una immagine della partita – Ma non svelto come il gioco della palla, dove precipita il rimbalzo, la presa, il proiettile nell’uovo; qui ha tempo il pensiero di vedere il non visto, o volle tornare, il prevedere, il confondere, il soffrire – Voglio prendere il comando – A sinistra dell’uomo ci sarà lo spazio, ulteriore passo nella parte – Muoverà lo spirito del gioco oltre il dolore – Fuori controllo il gioco, quando altro vince – Perciò la vita distruttore, per tornare all’alba, e sian congiunte o disgiunte le tue mosse. Quello che prima aveva senso, ora sbalordisce e nessuno capisce perché l’hai fatta. Annoto quel che spesso mi piace, quel che annoto tempo a tempo – L’uomo sospira e s’arrende – Lì trovavo quel che non era, in quel fragore che il cuore taglia.
La morte spaventa perché il mondo continua, ma la morte del mondo è più tremenda, se la vedi – Non a me è venuta la morte, che aspettavo fissa a quella data – Qualcosa mi ha detto, ma non accetta d’essere presa – Aspettavo la morte: lo trovai invece concepito – Non ammette d’esser visto, con pallide lingue di vento – Così trovai invece il concepimento, con un moto alterno. Ecco, mi insegna, quel che trovi è l’opposto – Tu che guardi fisso, vedi, non c’è, rivolta il sacco – Non è del mio sparire grave cosa né tetra – Quando arrivato lì che mi chiamava, di giade opache ormai non più preziose, siccome nasce lì, tutto si sfalda – Siccome ho aspettato, vedo che è l’opposto; ma credo non mentisse il grave rischio, quello che veleggiava in questo giorno. Ma ora so domani di camminare fresco, come il sopravvissuto – Svolgo il lenzuolo, svolgo le coperte – È necessario nascere – Oggi vedo chiaro quel che è stato e se per gioia che si raggruma nel presente, se non mi ha colto – Ogni giorno potrebbe essere il solo, ti dice e prevede così nasce a ogni passo – Il futuro non c’è, c’è questo fronte d’onda che inviluppa e cresce, nasce e rinasce, e si accartoccia, io che inviluppo il tempo. Cosa nasce invece dal timore? Il groviglio stretto? – Il conteggio che nasce, ma allora aggiungi bene a parole, parole. Ogni istante è membrana e schiuma – Siamo a riempirla, ma quando più orrendo non ci sia il futuro – Costante angoscia dove si sta crescendo – Quel costrutto in conflitto, quei castelli e collassi – Questo lavorio chiuso in terra e sepolto con rispetto – Se la morte non viene quando sa, siamo a fronte della sfida – Pubblica cosa siamo generanti / sulla tabella liscia il mondo oscuro, lo spavento che è morte e non è morte, la membrana che gonfia non c’è dopo che pensando non s’arrenda, non io pretendo rinascere e di capire – L’urlo dei giganti, che su due piedi controllano le porte della terra – Li hanno visti seguire quel crinale ed armarsi di fuochi. Se il destino non c’è davanti e non s’aggruma, allora sorge da terra e gonfia, sorge da dentro il misero essere che cerca e invece è.
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