LIBRO 95
Il guscio vuoto
Perché mi mostri i fatti? Non sono avido di gusci! – Ma non perciò venivo sommerso – Si divise in due parti come l’aragosta che immediatamente la mannaia divide e dove sei rimasta? Da entrambe le parti corri? Così quel sole, al di fuori mi attira – La vescicola infame si trafori; si riversi al di fuori e si afflosci – Così deplorevole e sgonfia. Il sole tocca e lambisce a striscio contemplando il suo stato. Caduta giù dal segno in un precipizio, non è concesso d’essere: così si tronca come era, non è, pensa nel volo. Si è congiunta, si è mossa e si è staccata. Compimenti d’eterno, frammentari – E così non essendo inconscia e sospesa, qual è il luogo al risveglio: lo accompagno. Mi fa ricomparire qua e là, rapito dal sogno. Vivo fra i pianeti come in una commedia leonardesca, tanto che se viaggiando fossero luna e sole, mobile compagine. E così fosse l’avvenire, confinato nell’immenso, nello scenario stesso farmi resistente. E vivo e fra la sua luna, come stelle viaggio e fosse sufficiente ad andare, come se i momenti uguali si ferissero per addizione ed eternità! Ma, essendo uguali, le scavassero dentro, tornissero come un pezzetto di materia – Penso di bruciare presto la strada del ritorno e le sue mappe se già non sono rotte. Le mappe delle stelle, le persone non vedo, non ci sono, ho per epoche un tratto lungo – Ho un registro furtivo dove riponevo e per anni, epoche e minuti – Dove conto il passato ed il restante – Dove, cantando, prego. Dove simulo di stare.
Pongo ostacoli e misura, pongo misure al vento – / Per un uomo la burrasca è finita. Si leva un uccello a sorvolare, alto sopra le onde che non sente alto sopra gli spruzzi. E, prima che sia fermo, riattraversa il mare – Perciò il mare è noioso, quando non ha sponde – Prima che tu dicessi: e perché mai l’hai detto? Prima che valicassi nebbia e coprivi uccidendo di cose ad una ad una. L’alba di lì veniva e prese il primo raggio. Marciava, come in esso nascente, non amava né incamminava amore perché da nessuno era accompagnato – Aveva sorriso ai pochi che vedeva.. Se per certe vie discorre un vento secco, per altre si raduna. Ricordo dove i sentieri pallidi segnavano le strade – Dei lati di questa galassia tutto il succo si spoglia, si grana e si intrattiene. E comincio a bere appeso alla luna come in un cratere.
Ma con scarpe ammuffite, tutti quei morti indietro. Scrutando il futuro, 2 volte scrutando, faccio sogno per esso – Quanto le braccia abbracciano, quanto più vive – Da qui poi riprova le vecchie strade – E mi accorsi che ero e che sapevo – In tutto quel confine vuoto, chi appartiene a domani, in cui si riversa miele elaborato, per conservare – Con forme e con trattati prendendo cose, le metteva dove, nel sacco – Ancora la più ambigua, forza vitale, ancora prendo e chiamo e i giudizi, quanto si intrecciano i giudizi, in una stuoia da zerbino – Qui pongo il punto, ma poi ancor più mi preme: dove si svestono le cose e si rivestono, dove ricominciano ad essere, qui fermi, dal punto, qui come uno scomposto cavaliere, fende la spada al vento, di qui dipana. Ferisco come oltre la nebbia e ferisco a caso. La stessa cosa pongo che cerco, l’alimento o i giudizi mi scompongono, le cose belle sfumano, si afflosciano – Dopo lascio cose ammonticchiate / e poi perciò lasciare, nelle righe composte / decomposto il suolo su cui tremo – Debole cuore, debole avvenire: a voi non affido volentieri – Datemi garanzie di fermo appoggio. Coi suoi occhi rovinati dal sole, bàlsami e unguenti riceve sotto le palme. Perché non si risveglia, perché risiede con le cose?
Più delle mandrie che devastano, più belle locuste, più degli elefanti che prendono foglie alte, ho visto uomini sciamare, salire anche colline sopra i boschi / e rompere coralli, lasciarli nella frana polverosa – Come si deforma il corpo a far da scudo, librando nella danza, mimando quello che non avviene – Come i pensieri devastano pensieri. E come li proteggi? Quando vivevano naturali e semplici nell’orto. L’innervazione fitta invade il capo. Protetti dalle azioni, gesticolando / così la nostra civiltà basata sulla guerra, con i pensieri contro gli altri scagliati, ad avvelenare, indebolire – Togliere la funzione, togliere peso. Così dice che, per la guerra, presto evolve inganno, se manufatti di pace ho visto distrutti. Altro appare la vita quando sorge. Proprio oggi non voglio, non contengo – E così venne, felice, pieno, scostando i fasulli.
Il mio personaggio attendi, le cose non son pronte – Non è il giorno che segue alla speranza, è il più cruciale, che tocco con passi lievi la neve – Le circostanze incedono a larghi passi, sorgono a passo leggero. Di dubbiose cose dammi l’energia – Non è per questo o quello, ma per la strada non giusta, del destino segui come la sonnolenza s’accoglie e l’intenzione e per questo venendo, che il futuro sbocci disarmato – Per miracolo uscendo di nascosto – Tutta mi devi dare la teoria, che la confronti, fatta di sussurri, di sospiri e di bugie, non è il popolo giudice, né la convenzione. Non ebbe tempo la pallida a osservare la cripta dei santi (di dubbi, di sangue o di sospiri) – Ma sapere che voli non importa – Non è quel giudizio valido in eterno – Non è in un luogo utile, preposto – Col profumo del pane che vi sbreccia – Con grande leggerezza supera quei colli come fosse un uccello dalla libertà che crea l’essere e il destino. Di due connesse frodi cerco l’attesa, e nulla è giusto. Nulla smania per essere – Prende colore a vuoto – Nulla percorre a paga – / Aprono le valve al vento le conchiglie. Gli insetti respiravano col pieno addome – Dove riduce al vento, dove concilia non è per il giudizio che agli uomini piace, che consiglio. Incise il solco coi buoi bianchi, come un’asse, una leva che solleva la città a leva – Fondano città bene orientate cui il cosmo in bilico ha la precaria città, come su un dito – Solco profondo sotterra il solco primario. Io solo custodisco il vostro universo e il diritto di volgerlo sui cardini, disse il re.
Posta isolata la coscienza e chiusa, altre ne vede e immagina – Quando il cielo si incammina ad essere, facendo passi stanchi fra le nostre bugie. E dormiva sul fianco della roccia, astratto centauro, coraggioso. Questa è la porta dei cavalieri: qui stavano a difesa appollaiati, qui il carbone del sole, la città così fu fatta. Una via tetra ed oscura era ferita e aperta come un pugnale d’ombre penetra ed espande. Dove la squarcia e luce accoglie. Femmina città dal maschio sole e tutte le vie fredde sono altrove. Questa civiltà nasce con il cosmo – Prende il cosmo e l’abbraccia: e tu uomo stantio, che riconosci? Qui dove regge il cosmo ed è nata la misura – Chi lo regge il prossimo universo, senza orientamento. Qui scavò il solco, l’aratro fecondò la terra e intorno al centro si orientarono le cose – Immise nel solco cocci e vasellame rotto che ai duci piace calpestare – Così si è creato chi non c’era, l’uomo a caccia di misura – Non sentieri incerti di animali, non efflorescenze tortuose di quei fiumi, non di poco girato, perso l’orientamento poi, come le termiti nella Babele corrosa, perciò piede diritto, spazio alla misura bene orientata. L’uomo deve andare la mattina verso la sua ombra, e tornare la sera – Così perso fra fosse e le rivalse, attenuato e muto, tagliato a pezzi, da strade tagliato a pezzi. Io, nel mio cammino. correva parallela al foro una via stretta – Meno s’affretta di quanto possa fare – Intorno girò il sole e l’altre stelle, e intorno la sua ombra che s’abbrevia – E svelto andava intorno sulla via parallela girandosi al sole, bruciando il sangue nelle vene. Lento era il moto delle braccia, e lentamente propagando, molto nervoso ricercava il sole. Ed io quando mi abbraccio, quando scendo pensoso, solco la terra – La conguaglio – A lei do là che porti alla terra la sua misura. Così pretendere che stiamo viaggiando ben composti – Seguendo che stia ben orientata e fragile com’è, come una boccia che rotola ad urtare dritta e severa come il moto – Allacciata alle stelle e ricomposta per il prima ed il dopo – Astratta vita – Semplice e feconda – E io il suo perfetto e più inclinato. Mi son fatte energie: le più incoerenti. Se la terra s’appende a questa fossa, al cardine primario, ed i nuclei più antichi sono scissi. Nell’isola sospesa tengo il cardine in mano, per essere come uno scettro delle mappe del cosmo. La mia anima fu fatta, pensata al cosmo. Alle recenti propagano le antiche vie, perdendo traccia, perdendo orientamento. Il cosmo si rapprende alla terra, per i suoi muti spazi: luminescente come il latte e ne consuma poco. Poco alla volta per generazioni – Qui stiamo aspettando che l’anima si crei e abbia un nocciolo, faccia come sente – Veda, veda, più di che vede, per miracolo sbocci, come ora sento un seme duro, tutto legno, senza germe. La coscienza non regge i suoi sostegni e non sta dentro ma non può stare fuori.
Non è limpido il sole, non s’affretta fra le strette case, così il pellegrino che veniva per le strette case – Lasciava monete vergini alla strada – Vuoto come un secchio – Nella sporta e, delizia del mondo, nuovi altari, di cui più stabile si insedia nella via. Sì, sì: dammi il riverbero sotterraneo del sole – A destra e a manca aprivano i negozi e contenevano spazi privi degli oggetti. Per poco si dissociano colori di giallo e azzurro sulle tele di ghiaccio, per gli aghi di brina; non s’aspetta, e tessere colori, il ragno – Attento ai fiori ricercati – Cibo attraente e interposto inganno, che per raggiungere, muore. Consapevoli d’essere sparsi, preservi nel cosmo, ora assenti, minuzie. Colori presi e rilasciati, alimento per pochi. Posando sull’assenza delle cose / quello che erano e se sono state sono – Almeno in parte, benché priva, deprivata di coscienza, come gusci che si guardano da fuori e da dentro, un po’ più bianchi – Cosmo che stritola e contiene, che uccide e dà valore, che scivola da scoscesi millenni sulle nostre povere cose – Noi vivi di ossessioni – Turbati solo dalla stranezza – Fascino che vieni in fluidi, scorrevoli sui nostri capi come in una doccia intensa che trattiene il respiro. Popoli assenti, che lasciano la morte e il soldo; posati nella terra, di maggior valore – Ricama, vita assente, le seguenti ricadute – Popoli assenti, freddi, senz’armi – Senza vociare, senza ratto e schiamazzo – Dov’è deposta la sua guerra, la voracità mortale? Dov’è, stretta fra braccia e gambe. L’amore, come di ragno che avvolge nella seta dei gemelli, ad uno si fermò il cuore, ancora nel grembo. Quello che smette e quello che continua – L’esistente e l’inesistente convivevano in un’unica germinazione: qualcuno non nasce; qualcuno, dopo esser nato, cessa prima o tace – / Ed il cosmo si avvolge e scende. Come della stessa seta, che uccide, il baco si avvolge – Cosmo ramificato, eppure unito, onde che ghermiscono le onde – Frasi le frasi e i colori sbiadiscono nell’abisso scuro; nei pesci pallidi di grotta in una vasca piccola in penombra. Torture se confina e se comprime e se confina, lascia che espanda un poco, tanto può poco, lasciato galleggiare e dagli l’amore, che sembri un centro – Non lasciarti svanire, eppure se scappi – Come il fuggitivo, come il galeotto braccato, come se il cosmo fosse tuo ma più ti allontani, più prendi direzione. Ma se ti aggomitoli scendi di più nel ristretto – Dunque, mendicante nel cosmo, pazzo e pellegrino, che fai? L’alba è rigida e chiude l’anno in una croce – Non perde direzione / sta nel suo fare. Sangue scambiato fra il morto e il vivo. Alfine il sole scroscia sulle valli.
La mia misera attesa posta di traverso a collimare solchi – A convertire il mondo col suo scettro attorno a cui ribalta. Era una punta, un picco infilato sull’asse, per merito dell’uomo, sulla sfera rotante, librante, lanciata a precessione per lo spin – Dove migra l’uomo, dove? Può andare e ritornare, nel pianeta stretti dobbiamo abitare – Il dominio che la pigli, a questo scempio di nuovo sono stato servile; il regno è unico – Di qualcuno la prepotenza avanza – Mi frughi nell’anima, spostando: diede fine alla fine, lasciò che fosse. Tu ne vedi un valore, un’abbondanza, un piacere. Disponi come è giusto e dici “bello” – Disponi o vedi già disposto, in abbondanza moderata come lì si potesse vivere – Così disarmonica è la piega presa – Ho prodotto 3 scatole di filato, sono dietro all’armadio, contengono broccati.
Discusse ombre che nessuno sa se ci sono o non sono, ombre che alla nostra mente sono scisse, ma traversavo lontane, e il pensiero non le prende, come migratori che sembrano estranei ma all’anima affini. Il giorno ne conosce il sollievo delle stupide cose che disbrucia il sole, tutte si uniscono in un luogo., dove distese, foglie di tabacco, dove le brucia il sole incandescente, che le impallidisce. Destini inutili affossati appunto – Propagati come macchie – Come il disegno sono spaghi che impigliano il calore, come una farfalla mi apposto, per nutrirmi di luce che circonda / ma in una grotta: divoro il suo colore. Un ragno entrato a comandare l’umanità dormiente, ha imparato a vedere coi suoi occhi, e siamo noi quei ragni, quegli estranei venuti – Guardiamo la realtà come perplessi – Ed assenti nello stato di presenza – Colle sbarre io mi sento forsennato – Di tutto l’universo il lieve peso, nebuloso e indicibile, provenienza dell’essere, frutto esso stesso e succo di saturnalia folli, prendendo il colore a sforzo che si veda, che faccia sfoggio – Riprendendo il colore della vita – Riprendendolo in ampi spazi, in curve ombreggiature, lumeggiature, su cui piccoli giochi si intrecciano in allegria – Dove il fango dipinge su una stuoia lumeggiamenti alti con la creta – Sul quaderno si seguono le date. Non sono miti come sembrano, e secche, non sono che farfalle di giornata – Io ti credo, ti credo in un rigurgito d’anni, essere sincero, essere un pasto di belve inesistenti, di paure già morte che allora la morte paventavano alla vita – Che allora stretta difendevi. Qui nella nebbia stinta, dove farfalle non passano alla fame, la vita sembra da allora mai sgusciata, inchinata al gemello che si inclina – Inclinato, contorto e già ferito, e già ferito. Delle cento bisacce ripiene di fuffa, non trovo l’una, che il continente avrà, forse il pianeta, restricted waves (vedi libro contiguo).
(segue) No one foresees the pain – Arrivato giù al bosco, disceso dove l’acqua si acquatta, non si può ricordare un’immagine dopo l’altra, senza una forma improvvisa che la ferma in armonia – Cosa posso riprodurre dei canti se non hai la voce / se l’emozione è svanita e non sei più lì. Di là le poche cose portando giù – Not much time passed and much elapsed – Divaricato, bislacco, dove non molto sta nei vuoti segni – Azzurre, come le cose trascinate dal cielo. Non trovo infima soluzione – Ma lentamente culminando come ogni breccia di sole, per me la \vita non era che una ribaltata catasta – Troverei libertà se fossi un fiore, o un luogo aperto, dove fossero altri uccelli, insediati a vigilare su spazi aperti, luoghi comuni di sogni, vento di nord-est che cavalchi stalloni, per quali strade scorre scendendo – D’essere vivo l’impressione stentava, l’aveva imbevuto. Come si imbeve un biscotto nel bicchiere metto le cose insieme come in astratto, come perdendo la conoscenza delle cose: so che da quei venti, da quegli immensi spazi, non ho garanzia; lì non mi fermo e allo stagno che sta dopo il percorso, l’acqua. Credimi, ci sono cose abili e schiette. Che significa allora? Io mi preservo. Essere nell’aldilà come nel sogno, ora nello stesso oltre.
A noi non resta che seguire la notte e risalire gli avi – Sottile come una piuma tracciare a pennello – Noi non si poteva dire se Venere precedesse e desse forza e vita, così luminosa, portandosi il colore fra le nebbie, ma veniva dall’alba pallida Venere, veniva da tempesta striata – / Cercava che si vedesse vita – / O mio connubio non distolto, non tolto – Chiaro dalla notte appare il vento – E l’erotismo è misto, a te che fuggi dalla guerra, il tuo misto eroismo: la sconfitta si porta, ti rimane – Dalle sponde di cemento non saltava più fuori il capriolo, che non aveva natura d’acqua – Misto dalla sconfitta trabocco con l’amore – Debole era l’effetto, domani sparirà – Ma non sai dove il sole, fra le nubi, cortesemente spunta, lo sai dall’astrolabio, lo misuri e costruisci. Da allora sai e non ti interessa. Lo sai, così come l’amore, lo cerchi e lo prevedi fra i compagni – Cosa c’è dietro là, dietro le quinte, ristabilisci, nasci forma e rinasci – Al molteplice sole che s’azzarda fai stesura e un tappeto – Ora che sai come s’orienta, manca d’esser vita – Dalla mia forza vitale ho insegnato – Perché così esile ed esiguo rimane il numero nascosto – Tutto intorno, dovunque il sole sale. Ma qui, dove tu sai essere, e l’amore sboccia senza oggetto, e l’amore concerne il suo sospiro, oltre infinite trappole, e l’amore non vive se non fuori, oltre infinite trappole. Dove sorge la forza, levatevi di torno guardie moleste – Che fermate la maldicenza più lontano – Quanto diradato l’inganno, quanto perfettamente diradato, così invisibile – Rimargina la forza – Per questo teatro ve la mostro – Ciascuno ha libertà di pensare e dire che ha pensato, non di quale colore a chi tiene i confini – Le idee, il giusto, sono pretesti, ma solo per la fame ed il saccheggio delle donne e dei pregi; di quei pregi traversi che adesso scopri di vedere diverso, purché regga la maglia, purché tenga il tessuto. Chi è sconfitto può presto penetrare nel cuore di chi / lo divora – Quello che vale del regno io terrò. Nessuno dalle piaghe colorate! Il delirio del mare io conosco, d’altronde un ricordo, vitali poppe da cui non esce più latte ma marciume – Altro latte io prendo, altro amore – Stretta tomba fra voi che fate consiglio, l’ultimo settenio datemi in paga – Il fondamentale e il superfluo qui ripasso – Rotto dagli avi in pezzi, così mal giudicato – Alba che risale, alba di solstizio che dividi in pezzi rotti, per cataste di avi – Ora un settenio nuovo, ora uno spiraglio d’aria lascia alle sepolture – La terra è marcia, emette amore marcio – Di qui vorrei degradare, per i gradini scivolosi toccare l’umidore più profondo e nero in quel luogo, essere soddisfatto. Per me ricostruire amore – Domani ti troverò, sole ripieno – E l’amore che piange l’abbandono, non è anche stretto? Liberati ragazza dal dolore! Miasmi sono sparsi, ribaltano i giochi – Non son capaci d’essere. La terra non assorbì più l’acqua (è passato quel punto che è tangente al sole) / sospeso sui tuoi gracili sospetti riappaio oltre, dov’è campagna aperta – I rimedi e i veleni stanno nel tuo fagotto – Allevia il male per un poco, dona cibo, il latte insipido pur nutre – Non c’è nella terra sangue a sufficienza – Non sangue contenuto, ma sangue sparso – Turgidi di miasmi gli abbeveratoi – E aggiunti al pianeta come le luci si aggiungono alla notte i pensieri avversi.
L’insetto puntò volando al suo orecchio / calda era la morte che vedeva – Alba che scorri muta, muta cantando ancora un po’ che scende – Ancora chi può fermarlo? La profezia – Ma la profezia non governa, ma descrive, accetta la parola che prolunga il dio venuto in sogno – Io devo governare alzando la mano, l’ombra togliere dall’alba il suo percorso – Non hai ribaltato, dal tuo sacro intruglio, dagli angoli, dai gradi, dai tempi che si spezzano nel sole, dai pianeti, con tutta l’attenzione alla sapienza, scienziato che non vedi sotto un graffio o una moneta, il corso tragico del sole che sale dal precipizio dopo la morte, non vedi una sola cosa, mirando al primo raggio – Tempo aspetto che punga, come all’orecchio l’insetto. Tutti cantando, pregando, si rialzano con un nuovo vento, già abbaglia, pregando, che pregando si rialza dalla descrizione impotente, dalle nostre lingue marginali. Volando si rialza e trovammo la voce. Grida al raggio ferita – Al primo raggio la spegnesti in sacrificio, dicendo di governare, e il destino scambiare coll’azione, colla morte in mano ti accorgesti come era potente l’alba che annulla (l’arma) – L’arma istantanea che fa breccia al cuore e taglia l’anima via a brandelli da ora alla sua vita – Distruggere è potente, perché non chiedi tempo come l’idea che si sferra, stracciare taglia il futuro, strappa il futuro in altri pezzi – La prima volta che fui: nascere, strappando involucri ed emergendo dal mare salino. Durante quel colpo ho esaurito la forza, attenuata, e non ho voluto agire – Avere parte all’atto – Come ogni momento si fa brandendo morte dove si è scisso il toro dal nerbo del collo? / Come raggiungere colla voce, poco dopo l’alba / quando rauchi sono i profili e dove si ammaestrano i pensieri – Senza nessuna pace dagli atti così disturbati: ad anni alterni, invece di governare, impara cosa accade. Non puoi dirigere vittoria qui ai piedi di morte, distogliere se non morendo, uccidendo. O mio paesaggio intrinseco, sbrecciato, gli ultimi boschi ai campi sono sacrificati – Messo a dimora il cibo per il futuro – Se non hai partito che ti protegge, non osare ridurre le razioni, non tenere il tempo stretto nelle tue carni, non frustarlo alla fretta – Il tempo si rivolge dove vuole e traccia archi simili ai pianeti – Lascia il tempo descrivere stagioni – Neanche colla morte in mano la puoi – Sanguina la vita che non nasce, non irrora il futuro – Se luna non consente – Se i sospetti, allineati tutti in fila, miei soldati, dubitano sangue sotto ardenti sorrisi, e sangue sulle labbra, esagerato fiore – Ed altri orifizi, tutto penetra a scandagliare coll’esatto angolo, se è vita o morte – Penetrando in fondo, alimentati dal rosso turgore – Tutto questo sta sotto, replica imperturbato, vuole – La cavità non risuona, quante di colpe puoi emetterne il peania – Descrivi! Non governare! Trova il giusto – L’etica spartita ad uno ad uno, come le pagnotte, e ciascuno andando ne mangia poco – Perciò tutti possono stare, possono rimanere alla giusta distanza, allo spazio e al bosco – Il sole nei riflessi si raffredda toccando l’acqua – Non darmi niente che non voglia. Non voglio moneta e non voglio pane – Il vento alto raffredda, trova cose – L’erotismo dispaia. Guarda che accade – Dici che l’amore ti fa fare. L’amore non genera, ma sta accanto, dove nasce il pensiero – L’amore si ricuce tutto intorno. Il vento, il sole, il sangue, incorniciati, per i tre colori in cui si scinde il bianco a sorpresa – Dentro il quadro sussiste dietro la tela nera o solo grezzo canovaccio – Siamo noi, nel semplice flusso calibrato, che dirigiamo la diversità e i grumi di realtà si fanno fitti, ma distanti e iniqui grumi di materia, prima causa di diversità ma che noi alimentiamo ormai vivendo – Uccelli si incendiano nel vento – Oh mio peccato, oh mio peccato di brace che lo brucia – Attentamente appoggio un peso e lo governo – Voglio che tu sia schiavo, che tu sia mio schiavo – Risale l’erotismo ribaltando cose, giorni di primavera anticipati, quando il sole si rialza / e là seguendo, prima del principio, ma il freddo tutto deve ancora imperversare – Ignobili insulti agli sconfitti, che puoi denigrare, perché all’uomo in gabbia serve, decorato, ammirato, prestigioso, amato, purché posseduto, trattenuto il vinto, ma non libero, così serve, deteriorato, schiavo, amato – Pianeta ricoperto, che dai crateri emetti fuoco, per roccia fusa, fuso il tuo mantello ondulato, come acari o pidocchi – Stuoli dei vincitori. Anche la sapienza può essere rubata. Il buio della pianta vespertina, il buio esangue della primavera – Quanto sei stato. Brucia di ombre al muro che il vento palpa – Ricorda quando scese uomo nobile e fiero, quando a salvarsi l’insetto si interrava. Comprando scienza certa e la mostrava – Primavera insolita, acquattata nell’inverno, tu mi dici che sia la morte che si indora, che vuole attrarci, dolce alla sua gabbia, arresa, vincitrice, ad essere pallidi, spenti e marginali. Vuol dominarci nel suo impero. Brucio d’essere e cosa, brucio divenire e brucio di un amore marginale. Così il percorso è felice e non s’arrenda che dopo un dolce patto – Non credo che promesse, sogni infranti, miserabili sogni, terre rare – Io sono sconosciuto al mio destino: eccomi, piglia, imprigionami, vinci – Di quanto sia la morchia e la poltiglia della terra, distruggi anche le tracce. Così mi hai visto fare, venerare idoli incalliti, solo per essere, solo per lusingare questa vita – Per cui la notte nega alla vita la salvezza.
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